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EDITORIALE
A sudest di Orwell
Di Fabrizio Pecori

In Myanmar corre l’anno 1364. Proprio poco prima che si manifestasse l’epidemia aviaria nei paesi limitrofi ho avuto modo di visitarlo con gli occhi incantati del turista.
Forse a causa del grande intervallo tra i due calendari i birmani, piuttosto che invocare lo spettro della sur-veillance o – come ultimamente si privilegia nei circuiti di informazione antagonista – sous-veillance, reagiscono in modo curioso davanti alle indiscrete telecamere dei turisti che – come me – si appropriano di istanti-ricordo tratti dalle loro quotidiane esistenze: accortisi di essere inquadrati, regalano un sorriso ammiccante e circumnavigano il video-operatore per rivolgere la loro meravigliata attenzione alle forti tinte proposte dal display. In pochi attimi alle spalle del turista videomunito si radunano piccole folle estatiche e divertite che analizzano e commentano le riprese, incentivando al contempo i passanti a parteciparvi.
Depennando sorridente dalle guide la classica avvertenza circa il chiedere il permesso prima di inquadrare le persone, mi lascio coinvolgere dal gioco della “ripresa dai mille coautori” mentre il pensiero dirotta verso una suggestione proposta da Paul Virilio ne L'espace critique, edito proprio in quel 1984 consacrato alle orwelliane profezie del pessimismo mediatico: «Al tempo che passa della cronologia e della storia, succede ora il tempo che si espone istantaneamente. Sullo schermo del terminale, la durata diviene “supporto-superficie” d’iscrizione, letteralmente o, meglio, cinematicamente: il tempo produce superficie. Grazie alla materia impercettibile del tubo catodico, le dimensioni dello spazio divengono inseparabili dalla loro velocità di trasmissione».


 

 

Giovani monaci birmani ripresi da una videocamera  miniDV



Fenomeni e riflessioni, queste, che rappresentano la materia pulsante delle indagini condotte sulle pagine di My MEDIA.

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