
Di Silvana Vassallo
Percorsi tra film e video nei “mondi” di Daniel Birnbaum
Fare Mondi, titolo della 53° Edizione della Biennale di Arti visive di Venezia, racchiude il senso del progetto espositivo di Daniel Birnbaum, il più giovane direttore che la Biennale abbia mai avuto, ma che può vantare una solida esperienza sia come studioso (è Rettore della Staedelschule di Francoforte sul Meno), sia come organizzatore di eventi artistici a livello internazionale. Un tema importante di Fare mondi riguarda i processi di globalizzazione in atto. Nella mostra vi è una nutrita presenza di artisti provenienti da paesi diversi, che attraverso le loro opere mettono in scena quella dialettica tra luoghi di appartenenza e forze globalizzanti che è un’aspetto centrale dell’esperienza contemporanea, e che si traduce in una pluralità di scambi, scontri e travasi da cui possono emergere collusioni produttive. Per quanto riguarda il modo di intendere l’arte, in innumerevoli interviste e nei saggi introduttivi contenuti nel catalogo della mostra Birnbaum ha sottolineato come “ un’opera d’arte è più di un oggetto, più di una merce. Rappresenta una visione del mondo, e, se presa seriamente, deve essere vista come un modo di costruire un mondo”. Fortemente interessato ai rapporti tra arte filosofia e società Birnbaum sostiene che in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo, l’arte, oltre che registrare i frammenti di ciò che sta crollando, può aiutarci nella ricerca di nuovi inizi. La sua Biennale in effetti non rincorre le grandi star del momento e non insegue le tendenze del mercato, ma si concentra su processualità artistiche emergenti, produttrici di “pensieri” e di “modelli” che offrono delle alternative al presente o che evidenziano una tensione verso il futuro.
Punti di riferimento importanti sono alcuni esponenti più o meno noti dei movimenti neoavanguardistici degli anni 60 – come Michelangelo Pistoletto, Öyvind Fahlström, Yoko Ono (Leone d’oro alla carriera), Gordon Matta-Clark, Yona Friedman, André Cadere – il cui vocabolario visivo e le cui strategie culturali possono ancora fornire stimoli preziosi alle nuove generazioni di artisti. Il dialogo che si intreccia tra artisti appartenenti a generazioni diverse privilegia alcuni filoni della sperimentazione artistica, quali il minimalismo, l’arte concettuale e un certo tipo di arte impegnata il cui investimento nel sociale si traduce soprattutto nella proposta “modelli alternativi” per poter condividere spazi ed esperienze in maniera non convenzionale. In questa prospettiva, un importante fil rouge della mostra è rappresentato dal rapporto tra arte e architettura, che pone in evidenza il tema della costruzione di ambienti come luoghi di condivisione di esperienze al contempo mentali, relazionali e funzionali. Le due imponenti installazioni dell’argentino Tomas Saraceno della brasiliana Lygia Pape situate rispettivamente all’ingresso del Palazzo delle Esposizioni e all’entrata degli Arsenali, marcano la rilevanza di questo tema. L’installazione di Saraceno, Galaxies forming along filaments, like droplets along the strands of a spider’s web, si presenta come un complesso intreccio di corde elastiche che ridisegna la geometria spaziale del grande salone d’ingresso del Palazzo delle Esposizioni, evocando al contempo, come suggerito dal titolo, galassie in formazione oppure un’enorme tela di ragno; l’opera di Lygia Pape (l’artista, scomparsa di recente, è stata omaggiata con una menzione speciale, “Rifare Mondi”), intitolata Ttéia (2002), è composta da sottili fili d’oro tesi fra il pavimento e il soffitto di uno spazio semibuio, i cui contorni sembrano smaterializzarsi di fronte a quella che appare come una scultura formata da fasci di luce. Anche la realizzazione di spazi funzionali è stata affidata alla cura di artisti: il bookshoop è stato realizzato dall’artista argentino Rirkrit Tiravanija, il bar dal tedesco Tobias Reheberger (Leone d’oro come migliore artista), e lo spazio educational per i bambini dall’italiano Massimo Bartolini. Sono tuttavia del tutto assenti dalla mostra opere che propogono esperienze immersive e interattive in spazi virtuali, e ciò taglia fuori una modalità contemporanea di “fare mondi” di stringente attualità, che avrebbe consentito di porre l’accento su nuove forme relazionali mutuate dalla tecnologia. Una novità da segnalare è la presenza di un Padiglione virtuale, ideato dall’artista guru del web Miltos Manetas assieme al curatore Jan Aman (http://biennale.net/), che si configura come un progetto in progress in cui per tutta la durata della mostra verranno presentati lavori di artisti provenienti da diversi paesi e saranno attivati forum di discussione.
Un’installazione particolarmente interessante per il modo in cui vengono utilizzate le tecnologie video in relazione allo spazio architettonico è Human being, di Pascale Marthine Tayou; l’artista, originaria del Camerun, ha costruito all’interno delle Corderie dell’Arsenale una sorta di villaggio africano, con capanne sulle cui pareti sono proiettati dei video che mostrano scene di vita quotidiana da tutto il mondo: Giappone, Taiwan, Camerun, Italia. I video si trasformano in tal modo in una sorta di “finestre”, che collegano virtualmente spazi geograficamente distanti, stabilendo connessioni tra culture che sono percepite come radicalmente diverse.
Fare Mondi è una vasta mostra non divisa in sezioni, che articola temi diversi attraverso un gioco di rimandi disseminato tra le oltre 90 opere presenti, con una rappresentanza equilibrata di tutti i linguaggi: installazioni, video e film, scultura, performance, pittura e disegno. Si è voluto dare spazio a varie forme di espressività artistica e questo è sicuramente un aspetto positivo.
Tra i video e le videoinstallazioni disseminate nella mostra è possibile individuare delle ricorrenze tematiche che evidenziano le scelte curatoriali di Birnbaum, orientate verso un approccio concettuale volto a riflettere sul significato della processualità artistica e un forte interesse per i legami tra video e cinema. Molti dei video e delle video-installazioni consistono in documentazioni di performance. Reading Dante II, dell’artista americana Joan Jonas – una figura pionieristica nell’ambito della performance e del video sperimentale – documenta un work in progress dell’artista basato su letture di brani della Divina Commedia eseguite da attori professionisti, ma anche da amici, e realizzate in località diverse (Canada, New York, Città del Messico e Italia). Elise Valentine Wilhelmine, della giovane artista israeliana Keren Cytter, è un’installazione che ruota attorno alla ripresa di una performance teatrale ispirata al film di Cassavetes La sera della prima, realizzata davanti a una platea di spettatori; l’allestimento riproduce la situazione in cui il video è stato girato, con gradinate per il pubblico che assiste allo spettacolo, giocando sulla mescolanza tra pubblico virtuale presente nel video e quello reale rappresentato dai visitatori della mostra. Una mise en abyme del ruolo spettatoriale è anche uno degli elementi che contraddistingue l’installazione dell’artista tedesca Ulla Von Brandeburg, il cui film in bianco e nero Sing Spiel, (16 mm trasferito in video) girato nella villa Savoye di Le Corbusier, gioca sul contrasto tra quella che nelle intenzioni di Le Corbusier doveva essere “una macchina ideale da abitare” e le crepe, le incrinature umane dei personaggi che lo abitano. Il film si conclude con uno spettacolo allestito nel giardino della villa sotto una tenda, dove i protagonisti diventano spettatori del loro stesso disagio; l’allestimento all’Arsenale evoca questa scena finale, in quanto il film è proiettato in una struttura fatta di tende colorate, contenente le stesse sedie presenti nel film.
Altri due lavori documentano performance meno narrative e teatrali: Tree Dance (1971, film 16mm b/n trasferito in video) si basa sulla registrazione di una performance “storica” di Gordon Matta-Clark ispirata ai rituali di fertilità primaverile che l’artista eseguì con una rete di corde e scale installate tra i rami di un albero; mentre l’installazione a doppio schermo Proteo dei due giovani artisti barcellonesi Bestuè/Vives mostra le trasmutazioni di un singolo attore da uomo a cavallo a motocicletta attraverso un veloce cambio d’abiti, un omaggio al famoso attore-trasformista di inizio secolo Leopoldo Fregoli ma anche un ironico commento sulle tematiche dell’ibrido post-human.
Per quanto riguarda le riflessioni sulla prassi artistica, paradigmatico è il film di John Baldessari Six Colorful Inside Jobs (film 16 mm trasferito in video, 1977), in cui un giovane studente allievo dell’artista viene ripreso per sei giorni mentre dipinge una stanza, ogni giorno di un colore diverso, “riposandosi” la domenica. Concettuale e minimalista, l’opera di Baldessari, a cui quest’anno è stato assegnato il Leone d’Oro alla carriera, rappresenta una riflessione ironica sul’arte e il ruolo dell’artista. Il tema viene ripreso, ma utilizzando un registro totalmente diverso, nel bel video della giovane artista francese Dominique Gonzalez-Foerster De Novo, incentrato sul racconto autobiografico delle ansie creative e delle aspettative legate al fatto di essere stata invitata per la quinta volta a presentare un lavoro alla Biennale, sullo sfondo di un’affascinante Venezia vissuta come “luogo del delitto” dove l’assassino ritorna ossessivamente. L’installazione dell’artista algerino Philippe Parreno, El sueño de una cosa (2001), propone un’articolata riflessione sui temi della paternità e delle riletture artistiche. Il lavoro trae spunto dai White Painting (1951) di Robert Rauschenberg, una serie di monocromi bianchi considerati da Rauschenberg “un’ emergenza” e definiti da John Cage, che si era ispirato ad essi per comporre la famosa partitura 4 minuti e 33 secondi di silenzio (1952), “aeroporti per luce, tenebre e particelle”. Partendo da queste definizioni, Parreno costruisce un’installazione in cui riproduce una versione dei monocromi di Rauschenberg, che ad intervalli di 4 minuti e 33 secondi si trasformano in “schermi” su cui viene proiettato un suo film. Girato su un’isola norvegese al Polo Nord, il film, della durata di un minuto, mostra immagini di paesaggi nordici dalla qualità onirica, immersi nella strana luce bianca del sole di mezzanotte, con un’accompagnamento musicale che riprende l’inizio di Desert (1954) di Edgard Varese. Molteplici sono le suggestioni derivanti da questo lavoro sofisticato e minimalista, che citando determinati artisti ed evocando “deserti”, “paesaggi senza tempo”, “pause di silenzio” sembra voler alludere alla necessità, in alcuni momenti, di effettuare “azzeramenti”di vario genere, per far affiorare nuove configurazioni di senso.
Se nell’installazione di Parreno il quadro si trasforma in schermo, in altri lavori proiettori e pellicole assumono valenze scultoree, svelando i meccanismi di riproduzione dell’immagine. In Coro Spezzato: The Future lasts one day dell’artista italiana Rosa Barba, cinque proiettori 16 mm, opportunamente modificati e sincronizzati, riproducono sulle pareti circostanti frammenti di frasi che compongono un testo poetico su un nuovo futuro collettivo, realizzando una sorta di performance macchinica a più voci, memore della tradizione policorale veneziana. Il film dell’inglese Simon Starling Wilhelm Noack oHG documenta l’attività dell’omonima azienda metallurgica berlinese, ed è attivato da un sofisticato meccanismo di proiezione che è parte integrante dell’opera. Si tratta di una grande scultura cinetica che ricorda una scala a chiocciola, costruita con strutture di metallo fornite dall’azienda berlinese attraverso le quali scorre la pellicola in tutta la sua interezza: l’installazione evoca in tal modo tutta una serie di associazioni tra la “macchina filmica” e i macchinari di precisione prodotti dall’azienda.
Una delle rare presenze di imponente installazione video di pura suggestione visiva è rappresentata da Orbite Rosse, di Grazia Toderi, consistente in una doppia proiezione di grande impatto, in cui vedute aeree notturne di metropoli, parzialmente racchiuse in grandi ovali, si trasfigurano in paesaggi siderali, in configurazioni luminose e pulsanti che, come suggerisce il titolo, alludono allo stesso tempo alla percezione attraverso l’occhio umano e all’immagine di una traiettoria descritta da un astro, stabilendo un legame tra spettacolo cosmico e visioni terrene. La rappresentazione di “spazi trasfigurati” caratterizza anche l’installazione a doppio schermo dell’artista spagnola Sara Ramo, che partendo da un luogo familiare, il quartiere di Madrid dove ha trascorso la sua infanzia, lo strasforma in uno spazio sospeso e inquietante, attraverso inquadrature claustofobiche di vicoli vuoti dove avvengono dei piccoli accadimenti apparentemente magici: una palla che rotola, una scatola di cartone che si muove, dei fiocchi di polistirolo che cadono. L’intera città di Venezia è coinvolta in un complesso e ironico progetto dell’artista brasiliano Hector Zamora, Sciame di dirigibili. L’artista si è inventato un evento immaginario, una festa di dirigibili sopra Venezia, di cui ha lasciato “tracce storiche e testimoniali” di vario genere: una campagna pubblicitaria, cartoline, disegni dell’evento realizzate da artisti di strada, uno Zeppelin in grandezza naturale incagliato tra gli edifici dell’Arsenale e un video che mostra uno sciame di dirigibili che affollano il cielo della città. Operando negli interstizi tra realtà e finzione Zamora pone interrogativi di grande attualità sulla costruzione mediale degli eventi.
Non mancano i video d’animazione, rappresentati dai lavori di due giovani artiste che costruiscono mondi e storie di natura molto diversa. Palestinese cresciuta tra l’America e Israele, Jumana Emil Abbud, nell’animazione The Diver (2004) impersona il suo spaesamento nella figura di un eroe che intraprende un viaggio avventuroso alla ricerca del “Cuore”, inteso come luogo di origine. La storia si ispira a ricordi di infanzia e a favole come Alice nel paese delle meraviglie, Il mago di Oz e Il piccolo Principe. Fantasie più dark vengono inscenate nei tre film Experimentet, dell’artista svedese Nathalie Djurberg, che utilizza personaggi di plastilina modellati a mano, dall’aspetto spesso inquietante e mostruoso, per narrare storie intrise di violenze, soprusi, perversioni sessuali, che ci mettono in contatto con gli aspetti più istintuali e meno controllabili della nostra psiche. I film sono collocati tra sculture altrettanto inquietanti, costituite da giganteschi fiori carnosi, arbusti dai colori violenti ed altre strane creature ibride che proiettano lo spettatore in un’atmosfera da incubo surreale. Con questo lavoro dal notevole impatto visionario ed emotivamente forte Nathalie Djurberg si è aggiudicata il Leone d’Argento come Giovane Artista con la seguente motivazione: “per le sue scenografie fiabesche, per le sue fantasie e per la sua ‘black pedagogy’, tenute tutte insieme in una gamma unica di mezzi espressivi”.
In conclusione la mostra di Birnbaum contiene una significativa presenza di video, che documentano varie anime della videoarte: nei suoi rapporti con il cinema, la letteratura, le arti visive, la performane e il teatro. Tuttavia, volendo fare qualche appunto, poco spazio è stato riservato ad un tipo di sperimentazione centrata sulla specificità linguistiche dell’immagine elettronica. Non a caso, tra le “paternità artistiche” che Birnbaum ha individuato come figure chiave per un dialogo con il presente, mancano riferimenti a personaggi come Nam June Paik, Wolf Wostell, Gary Hill, Bill Viola, tanto per fare dei nomi, che hanno fornito contributi fondamentali allo sviluppo del linguaggio video sia sul fronte della sperimentazione formale sia sul fronte della critica al sistema dei media.