
di Francesca Pasquinucci
E’ abbastanza difficile riassumere il suo curriculum, perché nei quattordici anni di quella sua fortunata carriera che sta arricchendosi di giorno in giorno progetti realizzati per alcuni dei più grandi nomi della musica italiana si sono moltiplicati: posso citarvi i set design per Marlene Kuntz (Tour Il vile, 1996; H.u.p. live in catharsis Tour, 1999; Senza Peso Tour, 2003), Afterohurs (Tour Hai paura del buio, 1997; Quello che non c’è Tour, 2002; Piccole Iene Tour, 200; I milanesi ammazzano il sabato Tour, 2008), La crus (Tour Dentro me, 1997: Dietro la curva del cuore Tour, 1999), Ustmamo (Tour Stardust, 1998; Tutto bene Tour, 2001), Carmen Consoli (Tour Mediamente Isterica, 1999), Roberto Vecchioni (Canzoni e Cicogne Tour, 2000), Bluvertigo (Zero Electric Tour, 2000; Pop Tools Tour, 2001), Subsonica (Microchip emozionale Tour, 2000; Amorematico tour, 2002; Controllo del Livello di Rombo Tour, 2003; Terrestre Tour e Be Human Tour, 2005; L’eclissi Tour, 2007 e 2008; Tour estivo, 2009). E ancora gli allestimenti per i tour di Biagio Antonacci, Gianluca Grignani, Cristina Donà, Cesare Cremonini, Riccardo Cocciante, Giorgia (Spirito Libero Tour, 2010) e Gianna Nannini (Gianna Dream Tour, 2010). Di fondamentale importanza la sua collaborazione con Elisa, iniziata nel 2006, per la quale ha realizzato progetti come Soundtrack Tour 2006, Summer Garden Tour 2007, Mechanical Dream Tour 2008, e Heart Alive Tour 2010, che hanno rappresentato e rappresentano tutt’oggi un passo in avanti per lo stage design italiano.
«Sono sempre stato nel campo della musica – mi racconta entusiasta Mamo, mentre siamo comodamente seduti sui divanetti bianchi nuovi nuovi del Gran Teatro Puccini di Torre del Lago che in una serata di Agosto ospita una tappa del tour estivo di Elisa – suonavo la chitarra nei gruppi (ho attraversato tutte la varie tribù musicali degli anni ’80, sono stato metallaro, punk, dark…), e questo mi ha permesso di avvicinarmi a tutta quell’ondata di rock italiano che ha avuto una sua visibilità agli inizi degli anni ’90, vedi Afterohurs, Subsonica, Negrita… Io facevo parte di quella scena perché ai tempi c’era un’offerta di tecnici ed esperti di musica molto ristretta rispetto ad oggi. Parallelamente alla musica lavoravo in teatro, e studiavo Architettura e Design al Politecnico di Milano. L’unione di queste tre cose mi ha tenuto sempre dentro all’ambiente spettacolo, e il passaggio al versante tecnico è arrivato con una serie di fortunate coincidenze. Nel frattempo ho smesso di suonare, perché ho capito che ero più portato ad occuparmi del lato tecnico della musica.
Il teatro è stata per me una grande palestra professionale, lì mi sono ritrovato a fare ogni mestiere possibile, lo scaricatore, il tecnico, il macchinista. Un grande onore è stato quello di lavorare, tra gli altri, al Piccolo Teatro di Milano, prima come macchinista e poi come elettricista e datore luci. La mia dimensione è stata comunque sempre quella del teatro di ricerca e tante sono le compagnie di Milano con cui ho lavorato, posso citare le meravigliose esperienze con la Compagnia del Buratto, quella con il Teatro Verdi, Santarcangelo, Teatro Lirico e Porta Romana. In queste compagnie piccole si faceva tutto, non c’erano i ruoli, eravamo due tre tecnici, e tutti facevano ogni cosa, tanto che spesso finivamo anche in scena. Quella del teatro è stata per me un’esperienza bellissima, ad un tratto ho dovuto allontanarmene perché gli impegni musicali mi assorbivano troppo e dovevo concentrarmi solo su quelli. Riuscire a ritornare a lavorare in teatro resta un mio grande sogno.
Il contatto vero con il mondo della musica è arrivato alla fine degli anni ’90, quando ho iniziato a fare lavori grossi, tour importanti, dopo avere passato dieci anni a lavorare con tante soddisfazioni per gruppi di amici che stavano avendo un po’ di visibilità, come Marlene Kuntz, La Cruz, Ustmamo, Bluvertigo, i già citati Afterohurs, e tanti altri.
Questa è stata la vera scuola perché con loro ho girato club di tutta Italia, allestendo centinaia e centinaia di concerti in tutte le condizioni immaginabili, utilizzando materiali che trovavo nei vari posti dove ci trovavamo. Condizioni sotto la soglia del minimo sindacale, ma che mi hanno dato la possibilità di imparare a creare effetti e situazioni con pochissimo, riuscendo ad ottimizzare tutto ciò che avevamo a disposizione. Era un lavoro non molto diverso da quello che facevo in teatro, c’erano pochi oggetti, pochi fari, ci dovevamo arrangiare ogni volta in qualche modo con vari espedienti. Lo sviluppo della creatività nasce anche da questo tipo di gavetta: questo potrebbe essere l’elemento principe di italianità, l’arrangiarsi sempre, il riuscire a risolvere le situazioni con poche e piccole cose, e ad uscire vincente dalle situazioni con una specie di “creatività umile”. Forse è una condizione legata alla “povertà” del nostro mercato affiancata all’estrema ricchezza di situazioni differenti che il nostro paese offre: è una cosa che ci differenzia molto dagli stranieri, che hanno un mercato musicale assolutamente molto più grosso e soprattutto molto più attrezzato, è un mercato in cui tutto deve essere perfetto, e in cui ogni minimo imprevisto desta grande scompiglio. Lo straniero è molto poco abituato e propenso a modificare il suo stato, a prendere delle decisioni che modificano l’esistente. A noi italiani invece piace trovare degli escamotages per superare le difficoltà, è un po’ il nostro pane quotidiano! Sono soluzioni naïf per cui gli stranieri molte volte ci prendono in giro e allo stesso tempo ci invidiano!
Il mio rammarico più grande è quello di non aver finito gli studi di Architettura, perché ad un tratto quello che studiavo sui libri era troppo lontano da quello che stavo facendo ormai a tempo pieno.»
Dal 1994, infatti, Mamo ha iniziato ad occuparsi anche di festival teatrali, dal 1994 al 1996 è stato direttore artistico del Festival Teatrale Toscana delle Culture di Grosseto, e ovviamente anche di festival musicali (Festival Nuvolari di Cuneo, 1998; Goa-Boa Festival di Genova, 2000, 2003; Festival Sintonie di Verona, 2001, 2003; Tora Tora Festival, 2002, 2003, 2004; Traffic Festival di Torino, dal 2004 al 2009; Be you Festival di Genova, 2006; Goods of Metal di Milano, dal 2007 al 2009), accanto ad una serie di eventi unici.
Continua Mamo: «Forse ho perso l’entusiasmo dei primi anni di università, in cui era presente un approccio molto ideologico verso l’architettura e pensavo che lei potesse cambiare il mondo. Quando mi sono scontrato con la realtà mi sono reso conto che non era così e si è creato uno scollamento infelice tra quello che studiavo, i miei ideali e quello con cui dovevo rapportarmi tutti i giorni nel mondo lavorativo. Alla fine ho visto che la realtà era quella che riusciva a darmi più soddisfazione, e per la prima volta vedevo realizzate delle cose che avevo progettato io, e riuscivo a toccare quello che per anni avevo lasciato solo sulla carta.»
Chi sono stati i tuoi designers di riferimento?
Quando lavoravo in teatro Svoboda era il mito per eccellenza, e lo è ancora, perché quello che è riuscito a fare lui nel ‘900 a livello di realizzazione, di immaginari , di innovazione, di creatività, ha rappresentato una svolta totale per questo tipo di lavoro. Lui non è stato solo lo scenografo, ma è stato uno dei primi ad avere un’idea precisa dell’opera totale, con la multidisciplinarietà e la multivisione.
Ovviamente sono molto legato alla generazione dei grandi show designers angloamericani, mostri sacri come Marc Brickman, Mark Fisher, Patrick Woodroffe, Paul Normandale, Anton Corbijn, ma apprezzo tantissimo i recenti approcci trasversali di Willie Williams, Roy Bennet, Oli Metcalfe. Ultimamente ho visto in giro molti giovani di talento, e sono veramente contento di questo: credo che in questi anni ci sia un’ondata pazzesca di creatività nuova, a dispetto delle condizioni di crisi in cui ci troviamo.
Che cosa vuol dire per te essere light designer?
Devo confessarti che per il mio tipo di approccio trovo spesso limitante parlare esclusivamente di luce senza affrontare in modo complementare le tante tematiche legate alla percezione visiva nell’ambito di uno spettacolo. Show designer o visual director credo che sia la definizione più giusta per il nostro lavoro, con la necessaria consapevolezza di esprimere solo uno dei mille mondi possibili. Ritengo invece che la figura del progettista della luce abbia la sua massima espressione e riconoscibilità in ambito civile, un architetto che si occupa di luce, magari con un taglio etico: civile perché lavora per la gente, e civile perché ha il compito di rendere fruibili, piacevoli e spesso sorprendenti i luoghi spesso anonimi in cui la gente vive e lavora. Nello spettacolo è molto relativo, parliamo di lighting design soprattutto per semplificare. Mi piace definirmi “architetto dell’effimero”, progetto ambienti destinati a vita breve, brevissima, costruzioni all’interno delle quali la luce va ad intrecciarsi alle architetture sonore, alla narrazione del cantante, va ad amplificare le emozioni, a suggerire interpretazioni. E’ una definizione ambiziosa, multidisciplinare, trasversale.
Come si lavora con la luce in un concerto musicale, e come può uno show designer rielaborare idee di altri che lo hanno particolarmente colpito?
Mi piace questo paradosso: io mi occupo del buio! Ho imparato con l’esperienza che la vera abilità sta nel gestire i vuoti più che i pieni, perché è sempre più facile aggiungere che sottrarre.. Quando parliamo di luce ovviamente non ci riferiamo solo a sorgenti illuminanti, oggetti illuminotecnici, ma parliamo di tracce impalpabili, di modellazione ambientale. Lo spazio è disegnato anche dalla luce. Io non ho un approccio troppo disciplinare, quando penso alla luce la mia idea si modella in funzione dell’obiettivo. La sua “funzione prima” in termini semiotici è quella di illuminare, permettere la visione di oggetti, persone e ambienti, modellando plasticamente lo spazio, la sua “funzione seconda” è quella di essere essa stessa narrazione emotiva, nell’alternanza appunto di buio e luce, colore e contrasto, senza dover necessariamente illuminare qualcosa: nel mondo dello spettacolo potremmo discutere quale delle due funzioni sia più importante. Direi che una volta trovata quella soglia percettiva che rende fruibile al pubblico la performance, sicuramente per me risulta più interessante esplorare l’altra sfera.
Gli spunti di innovazione in realtà sono pochissimi e quando arrivano sono dei lampi di genio, riservati a pochi eletti: la creazione è un riassemblaggio di cose già esistenti, e finché riusciamo ad estrapolare idee da contesti e le rielaboriamo per adattarle a contesti nuovi siamo di fronte ad un atto creativo costante e infinito. Pensando in grande, il salto in avanti a livello di progettazione credo sia stato fatto dagli U2 nel loro ultimo tour 360°, perché a livello quantitativo, prima di loro, nessuno aveva mai realizzato una cosa del genere. Hanno fatto una cosa talmente “oltre” che nessuno, proprio nessuno, è in grado di fare una critica tecnica, possiamo disquisire dello spettacolo, ma dobbiamo prendere atto che hanno spostato di molto in avanti la soglia dell’architettura effimera. Qualcuno dice anche troppo, tanto che forse è il caso di fare dei ragionamenti sulla direzione intrapresa.
Parliamo delle tue ultime creazioni. Puoi raccontarmi il processo creativo dei tour di Elisa Mechanical Dream , e di Heart Alive Tour?

Io lavoro con Elisa dal 2006. In quell’anno abbiamo realizzato un tour, Soundtrack, con una parte invernale e una estiva: il palco dell’invernale era costituito da una multiproiezione su otto schermi, abbastanza classico come impostazione, ma molto raffinato, lineare, geometrico, esperienza totalmente trasformata in estate quando sul palco, ripulito di tutto, sono state inserite ben 80 piante di bambù vere, alte 4 metri. E’ stata una trovata particolare, perché in realtà non abbiamo inventato niente, abbiamo solo preso delle piante da un vivaio di Pistoia!
Ogni sera, alle 20, dopo il soundcheck, le piante venivano annaffiate, e ogni tanto dovevamo chiamare un giardiniere a potarle perché germogliavano in continuazione. A fine tour Elisa le ha trapiantate nel suo giardino a Monfalcone, dopo sei mesi ha dovuto estirparle perché avevano invaso la casa del vicino e stavano minacciando le fondamenta.
L’anno successivo è stata la volta di Mechanical Dream Tour, poche date per un grande show in cui abbiamo unito più arti. Taglio cinematografico sempre presente, e video più spinti del solito, accanto a coreografie e movimenti provenienti da vari elementi. A lei è venuta l’idea di chiamare Luca Tommassini per costruire le coreografie. Tutto è nato su indicazioni molto vaghe, ma quello che Elisa aveva chiaro era il titolo, quel tour doveva in tutti i modi chiamarsi Mechanical Dream, il sogno meccanico. Ho dovuto interpretare cosa volesse dire, ma la chiave di volta è arrivata ancora una volta da lei che mi ha raccontato il forte legame con la sua terra di mare, di cantieri navali. Sono così entrato in contatto con un immaginario di navi, di cantieri, di lavoro: un immaginario pazzesco, che io da milanese conoscevo a mio modo, vista l’archeologia industriale di cui le nostre metropoli sono ormai permeate, e mi è bastato poco per cogliere alcuni elementi tipologici, ferraglia, oggetti arrugginiti, forme pesanti, rumori.
Io ho fornito a Luca un contenitore molto grosso e articolato per poter ideare le sue coreografie, un palco alto 4 metri, diviso in due parti entrambe adibite alle performance; unendo le nostre competenze è venuto fuori un lavoro di cui vado molto fiero. Elisa si è occupata della parte musicale che ha incastrato perfettamente con le nostre scelte estetiche: lei descrive un’atmosfera particolare che vorrebbe all’interno di ogni pezzo, e noi costruiamo cose su quella sua idea, su quel suo sogno.
In fase di ideazione bisogna avere intuito nel trasformare in realtà gli input dell’artista. In Heart Tour, ad esempio, ci sono stati dei problemi nella fase iniziale proprio perché con Elisa non ci eravamo capiti, il palco che le avevo inizialmente proposto era totalmente differente a quello che poi abbiamo realizzato, ero andato in una direzione progettuale sbagliata, troppo tecnologica, con una preponderante sezione hardware video, peraltro con grossi costi previsionali. Non avevo ben colto delle atmosfere che lei (neo-mamma: un aspetto non trascurabile) mi aveva narrato, e in corso d’opera ho dovuto a un certo punto fare umilmente marcia indietro e rituffarmi nel progetto per crearne uno nuovo. Così è nato il palco di Heart Tour, la cui ispirazione è arrivata improvvisamente da un quadro di Mauritius C. Escher intitolato Salite e Discese, inno alla metamorfosi e all’illusione prospettica. Ho iniziato a giocare con livelli, scalette, rampe e un insieme di solidi primitivi, di forme infantili assemblate apparentemente a caso, disegnato andando anche contro i miei principi di simmetria. Una struttura giocosa, che poteva assomigliare ad un castello, tutto rivestito di bianco. Siccome la volontà di Elisa e Luca era di usare le videoproiezioni e non schermi led, gli ho fornito uno schermo totalmente non convenzionale, cioè l’intero palco! Elisa e la band si sono divertiti un sacco su quella struttura. In questo ultimo tour di Elisa, Heart Alive, abbiamo usato un tecnologia video di tipo mapping, che non consiste in semplici proiezioni in 3D, ma si tratta di proiezioni effettuate con dei software che fanno un rilievo dell’ambiente e delle superfici su cui si proietta, una specie di maschera sulla quale vengono proiettati contributi sfruttando le linee di fuga prospettiche. Se venisse proiettata la stessa immagine su un’altra superficie con un’altra forma, ad esempio una superficie piana, risulterebbe illeggibile: la proiezione si avvolge letteralmente sulla forma su cui è proiettata.
Qual’è stato invece l’input per l’ideazione del palco dell’ultimo tour di Gianna Nannini, il Gianna Dream Tour?

Gianna Nannini e il grande Pepi Morgia mi hanno chiamato per portare qualcosa di particolare sul palco del Gianna Dream Tour, con un interesse per il video, che avevano usato in maniera molto tradizionale nel tour precedente. Gianna è Gianna, è grande, potente, d’impatto, e bisogna stare attenti a quello che le si mette accanto. In ogni caso ho cercato una via per crearle uno “sfondo” adatto. È nata l’idea del cilindro a led, già ampiamente visto in televisione ma poco utilizzato nel live proprio per le sue caratteristiche tridimensionali di difficile gestione su un palco frontale tradizionale. Quello da me pensato è stato un cilindro atipico, perché la superficie luminosa che il pubblico vedeva come posteriore non era esterna, ma interna: la struttura era di fatto formata da uno schermo semitrasparente convesso sul fronte e da uno concavo sul retro posti uno di fronte all’altro, con un’apertura a metà per accedere allo spazio interno.
L’effetto era unico: se usavamo lo schermo frontale avevamo un effetto stondato delle geometrie, nel momento in cui facevamo entrare in azione quello posteriore le sue immagini si miscelavano con quelle del primo schermo con una geometria ribaltata. Senza creare geometrie in 3D, bastava ad esempio disegnare una riga orizzontale e mandarla in su e in giù per realizzare un anello in movimento.
Non c’era nessun tipo di contributo narrativo, perché per ottenere questo gioco di illusioni era necessario usare una risoluzione dell’immagine medio-alta che non era adatta per contributi di tipo figurativo sia preprodotti che live. Così ho utilizzato una serie di grafiche pescando da quelle vengono sempre scartate in un contesto standard perché ritenute troppo banali ma che paradossalmente che nel mio caso si sono rivelate efficacissime.
I Subsonica sono un gruppo adattissimo a svolgere un discorso legato teatralità all’interno del concerto, sia per la loro immagine, per il loro modo di stare sul palco, sia per le loro idee e per il loro modo di scrivere testi e musiche. Tu hai seguito i loro concerti dall’inizio della carriera, puoi raccontarmi la loro evoluzione a livello di progetto palco e concept dello show?

Gli allestimenti dei Subsonica sono cresciuti di pari passo con il loro successo. In ogni tour abbiamo cercato di aggiungere degli elementi dal punto di vista visivo che li rendessero riconoscibili, cosa che avveniva già nei loro video e nei servizi fotografici.
Con loro ho fatto sette tour. L’ultimo due anni fa, a mia vista il più bello, è stato L’eclissi Tour in cui ci siamo potuti permettere di sperimentare molto di più sull’aspetto visivo dato il budget leggermente più ampio. Loro hanno scelto di concentrare molta dell’attenzione sul visual, anche a costo di guadagnare meno. Volevano fare qualcosa di “eclatante”!
Io ho proposto loro di lavorare mixando in modo radicale, decontestualizzandoli, i canoni visivi consolidati dei loro due immaginari principali: la musica rock e la musica elettronica. Il rock ha dei suoi elementi iconografici standard, dei suoi stilemi, così come l’elettronica. Dovevamo provare a fonderli e a scombinare un po’ le carte: se nel rock il leader è il cantante che sta al centro, illuminato bene, con intorno tutto il resto del gruppo, nell’elettronica c’è un monte di macchinari, dietro a cui sta il dj al buio con alle spalle i visuals; ogni tribù hai suoi standard che vanno estrapolati dal contesto per essere trasformati. Questo è ciò che abbiamo fatto: innanzitutto abbiamo semplificato al massimo gli elementi, pensando al palco come ad uno spazio geometrico puro e assoluto, privo di spazi superflui.
Ho progettato un parallelepipedo largo 20 metri, profondo 4 metri, alto 2, totalmente nero, in cui la band era disposta allineata, un musicista accanto all’altro senza gerarchie; tutto il piano di calpestio era grigliato, tutti gli ampli, monitor, cavi e molte luci sono stati nascosti sotto; i tecnici, i backliner, il fonico di palco, che di solito stanno ai lati, sono stati posizionati dietro il parallelepipedo, in una specie di buca d’orchestra al contrario. I musicisti avevano comunque modo di dialogare con i tecnici, ma alle spalle. Delle luci mi interessava la funzione illuminante e la spinta dinamica proveniente dal rock mentre del mondo dance volevo l’attenzione maniacale al bpm e alla coerenza totale luce-suono. In questo contesto il layout grafico, che semplificando considero come la risultante geometrica delle linee (anche virtuali) tridimensionali su cui sono disposte le sorgenti luminose, doveva essere assolutamente coerente con i criteri estremi da noi adottati, cioè risultare scheletrico, essenziale, potente e macroscopico. Le luci e i video dovevano essere oggetti luminosi estremi: uno schermo led di tipo see-throw largo quanto l’intero palco l’ho messo davanti ai musicisti e uno identico dietro, movimentati da motori per inscatolare a piacimento le aree e anche le persone durante la performance. Le luci stavano sottopalco, allineate sul tetto o sul backwall ma sempre disposte in blocchi di tipologie omogenee non mischiate fra loro, Siamo arrivati ad avere quattro pareti costituite da elementi grafici, la cui interazione ha dato origine a tutte le forme plastiche che si possono ottenere da una configurazione così elementare. Era in fondo come un perseguire le linee grafiche degli strumenti di bordo dell’elettronica. Qui non sono stato certo minimalista, ma mi sono imposto di usare sempre un effetto per volta, però in forma macroscopica. Da questo tour ho sperimentato l’uscita da un mondo luci fatto di raggi classici tradizionali, di puntamenti “pettinati”, ho eliminato il controluce come da manuale e sono approdato al layout grafico, ed è stata una bella svolta stilistica.
Subsonica, Be Human tour. Le location erano i piccoli club, tour volutamente underground, lontano dalle produzioni da palasport, in cui veniva allestita una “gabbia” in layher (il materiale con cui si costruiscono le impalcature dei palchi) di 6 metri per 4, che li racchiudeva durante il concerto, e sulla quale erano appesi, come esplosi, una dozzina di semplici pannelli led come unica sorgente luminosa.