‘Fly in High Resolution’
Dal 4 febbraio al 12 marzo 2011
Alla Galleria Carré Doré di Monaco
Ha preso il via “Fly…in High Resolution” esposizione incentrata su uno dei più importanti Artisti Russi dell’Arte Contemporanea dei media digitali..
Dal 4 febbraio al 12 marzo 2011
Alla Galleria Carré Doré di Monaco
Ha preso il via “Fly…in High Resolution” esposizione incentrata su uno dei più importanti Artisti Russi dell’Arte Contemporanea dei media digitali..
Di Melina Ruberti
Tra le cose che mi hanno più colpita alla Biennale di Venezia figurano opere che danno nuove “consistenze” ed ulteriore “spessore” ai processi della comunicazione.
Infinite matite disposte nei modi più incredibili ed ancora tutte da appuntare sembrano attendere con impazienza i loro prossimi utilizzatori.
E’ uno spazio universale del disegnare e, in senso più generale, del lasciare una traccia. Il concetto dell’esposizione si basa sulla nozione – ovviamente soggettiva – che l’universo rappresentato dalla LINEA colma necessariamente la differenza che sta tra le architetture delle singole nazioni. Gli autori si dicono convinti che l’atto del disegno sia il comune denominatore dell’attività quotidiana dell’architetto. Il disegnare è lo spazio comune Le persone si incontrano nel disegno
Decay of a Dome – Amateur Architecture Studio
La costruzione razionale diviene una costruzione nastica, ovvero propria dello sviluppo delle curvature degli organi vegetali. L’autore ha intitolato l’opera Decay of a Dome.
La struttura si basa su un unico principio: vi si impiegano solo pezzi di legno del medesimo tipo e con un’identica sezione. Alla fine l’opera risulta essere una esplosione di strutture di legno, tipico materiale utilizzato nelle costruzioni architettoniche, che sembra fluttuare nel cielo seguendo lo sviluppo tipico dei rami dell’albero da cui in fin dei conti proviene.
Negli ultimi anni il lavoro dello Studio Andrea Branzi si è concentrato soprattutto sulla ricerca di nuovi modelli deboli di urbanizzazione; modelli teorici che cercano di interpretare le condizioni sociali e funzionali del XXI secolo .In questo plastico si riscontrano alcuni dei principi basilari della completa libertà in funzione della quale la città del futuro potranno/dovranno essere continuamente “ri-pensate, ri-adattate, ri-progettate”.
Ho trovato molto interessante l’installazione che consente di fruire, fianco a fianco con molti altri utenti, le oltre 2000 ore di interviste dedicate alle svariate curiosità del mondo realizzate da Hans Ulrich Obrist.
Si tratta di interviste di un vero e proprio fuoriclasse alle menti più interessanti della contemporaneità che toccano ogni possibile curiosità di chi ha sete di conoscere.
La disposizione delle postazioni assicura ad un tempo la possibilità della massima concentrazione e quella della massima condivisione e confronto.
La capacità di camminare attraverso le nuvole, di toccarle, di sentirle è un concetto tratto da molte delle nostre fantasie. Mentre su, in alto, al di sopra della terra, guardiamo all’esterno, attraverso il finestrino dell’aereo, immaginiamo spesso nella nostra mente come potrebbe essere la vita in quell’etereo mondo di soffici vapori.
La spazializzazione proposta da Cloudscapes mira proprio a sottolineare l’aspetto ludico, felice ed incantato dell’incontro con l’insolito e con gli altri: assorbendo i corpi in una spessa cortina che ci induce alla ricerca di nuove presenze, al cospetto delle quali – è inevitabile – scatterà un sorriso complice.
Inviateci le vostre riflessioni, i vostri commenti, i vostri giudizi, positivi e negativi, di quello che vedrete in questi quattro giorni in giro per Firenze.
Ne faremo tesoro e ne discuteremo. Grazie a tutti.”
di Francesca Pasquinucci
E’ abbastanza difficile riassumere il suo curriculum, perché nei quattordici anni di quella sua fortunata carriera che sta arricchendosi di giorno in giorno progetti realizzati per alcuni dei più grandi nomi della musica italiana si sono moltiplicati: posso citarvi i set design per Marlene Kuntz (Tour Il vile, 1996; H.u.p. live in catharsis Tour, 1999; Senza Peso Tour, 2003), Afterohurs (Tour Hai paura del buio, 1997; Quello che non c’è Tour, 2002; Piccole Iene Tour, 200; I milanesi ammazzano il sabato Tour, 2008), La crus (Tour Dentro me, 1997: Dietro la curva del cuore Tour, 1999), Ustmamo (Tour Stardust, 1998; Tutto bene Tour, 2001), Carmen Consoli (Tour Mediamente Isterica, 1999), Roberto Vecchioni (Canzoni e Cicogne Tour, 2000), Bluvertigo (Zero Electric Tour, 2000; Pop Tools Tour, 2001), Subsonica (Microchip emozionale Tour, 2000; Amorematico tour, 2002; Controllo del Livello di Rombo Tour, 2003; Terrestre Tour e Be Human Tour, 2005; L’eclissi Tour, 2007 e 2008; Tour estivo, 2009). E ancora gli allestimenti per i tour di Biagio Antonacci, Gianluca Grignani, Cristina Donà, Cesare Cremonini, Riccardo Cocciante, Giorgia (Spirito Libero Tour, 2010) e Gianna Nannini (Gianna Dream Tour, 2010). Di fondamentale importanza la sua collaborazione con Elisa, iniziata nel 2006, per la quale ha realizzato progetti come Soundtrack Tour 2006, Summer Garden Tour 2007, Mechanical Dream Tour 2008, e Heart Alive Tour 2010, che hanno rappresentato e rappresentano tutt’oggi un passo in avanti per lo stage design italiano.
«Sono sempre stato nel campo della musica – mi racconta entusiasta Mamo, mentre siamo comodamente seduti sui divanetti bianchi nuovi nuovi del Gran Teatro Puccini di Torre del Lago che in una serata di Agosto ospita una tappa del tour estivo di Elisa – suonavo la chitarra nei gruppi (ho attraversato tutte la varie tribù musicali degli anni ’80, sono stato metallaro, punk, dark…), e questo mi ha permesso di avvicinarmi a tutta quell’ondata di rock italiano che ha avuto una sua visibilità agli inizi degli anni ’90, vedi Afterohurs, Subsonica, Negrita… Io facevo parte di quella scena perché ai tempi c’era un’offerta di tecnici ed esperti di musica molto ristretta rispetto ad oggi. Parallelamente alla musica lavoravo in teatro, e studiavo Architettura e Design al Politecnico di Milano. L’unione di queste tre cose mi ha tenuto sempre dentro all’ambiente spettacolo, e il passaggio al versante tecnico è arrivato con una serie di fortunate coincidenze. Nel frattempo ho smesso di suonare, perché ho capito che ero più portato ad occuparmi del lato tecnico della musica.
Il teatro è stata per me una grande palestra professionale, lì mi sono ritrovato a fare ogni mestiere possibile, lo scaricatore, il tecnico, il macchinista. Un grande onore è stato quello di lavorare, tra gli altri, al Piccolo Teatro di Milano, prima come macchinista e poi come elettricista e datore luci. La mia dimensione è stata comunque sempre quella del teatro di ricerca e tante sono le compagnie di Milano con cui ho lavorato, posso citare le meravigliose esperienze con la Compagnia del Buratto, quella con il Teatro Verdi, Santarcangelo, Teatro Lirico e Porta Romana. In queste compagnie piccole si faceva tutto, non c’erano i ruoli, eravamo due tre tecnici, e tutti facevano ogni cosa, tanto che spesso finivamo anche in scena. Quella del teatro è stata per me un’esperienza bellissima, ad un tratto ho dovuto allontanarmene perché gli impegni musicali mi assorbivano troppo e dovevo concentrarmi solo su quelli. Riuscire a ritornare a lavorare in teatro resta un mio grande sogno.
Il contatto vero con il mondo della musica è arrivato alla fine degli anni ’90, quando ho iniziato a fare lavori grossi, tour importanti, dopo avere passato dieci anni a lavorare con tante soddisfazioni per gruppi di amici che stavano avendo un po’ di visibilità, come Marlene Kuntz, La Cruz, Ustmamo, Bluvertigo, i già citati Afterohurs, e tanti altri.
Questa è stata la vera scuola perché con loro ho girato club di tutta Italia, allestendo centinaia e centinaia di concerti in tutte le condizioni immaginabili, utilizzando materiali che trovavo nei vari posti dove ci trovavamo. Condizioni sotto la soglia del minimo sindacale, ma che mi hanno dato la possibilità di imparare a creare effetti e situazioni con pochissimo, riuscendo ad ottimizzare tutto ciò che avevamo a disposizione. Era un lavoro non molto diverso da quello che facevo in teatro, c’erano pochi oggetti, pochi fari, ci dovevamo arrangiare ogni volta in qualche modo con vari espedienti. Lo sviluppo della creatività nasce anche da questo tipo di gavetta: questo potrebbe essere l’elemento principe di italianità, l’arrangiarsi sempre, il riuscire a risolvere le situazioni con poche e piccole cose, e ad uscire vincente dalle situazioni con una specie di “creatività umile”. Forse è una condizione legata alla “povertà” del nostro mercato affiancata all’estrema ricchezza di situazioni differenti che il nostro paese offre: è una cosa che ci differenzia molto dagli stranieri, che hanno un mercato musicale assolutamente molto più grosso e soprattutto molto più attrezzato, è un mercato in cui tutto deve essere perfetto, e in cui ogni minimo imprevisto desta grande scompiglio. Lo straniero è molto poco abituato e propenso a modificare il suo stato, a prendere delle decisioni che modificano l’esistente. A noi italiani invece piace trovare degli escamotages per superare le difficoltà, è un po’ il nostro pane quotidiano! Sono soluzioni naïf per cui gli stranieri molte volte ci prendono in giro e allo stesso tempo ci invidiano!
Il mio rammarico più grande è quello di non aver finito gli studi di Architettura, perché ad un tratto quello che studiavo sui libri era troppo lontano da quello che stavo facendo ormai a tempo pieno.»
Dal 1994, infatti, Mamo ha iniziato ad occuparsi anche di festival teatrali, dal 1994 al 1996 è stato direttore artistico del Festival Teatrale Toscana delle Culture di Grosseto, e ovviamente anche di festival musicali (Festival Nuvolari di Cuneo, 1998; Goa-Boa Festival di Genova, 2000, 2003; Festival Sintonie di Verona, 2001, 2003; Tora Tora Festival, 2002, 2003, 2004; Traffic Festival di Torino, dal 2004 al 2009; Be you Festival di Genova, 2006; Goods of Metal di Milano, dal 2007 al 2009), accanto ad una serie di eventi unici.
Continua Mamo: «Forse ho perso l’entusiasmo dei primi anni di università, in cui era presente un approccio molto ideologico verso l’architettura e pensavo che lei potesse cambiare il mondo. Quando mi sono scontrato con la realtà mi sono reso conto che non era così e si è creato uno scollamento infelice tra quello che studiavo, i miei ideali e quello con cui dovevo rapportarmi tutti i giorni nel mondo lavorativo. Alla fine ho visto che la realtà era quella che riusciva a darmi più soddisfazione, e per la prima volta vedevo realizzate delle cose che avevo progettato io, e riuscivo a toccare quello che per anni avevo lasciato solo sulla carta.»
Chi sono stati i tuoi designers di riferimento?
Quando lavoravo in teatro Svoboda era il mito per eccellenza, e lo è ancora, perché quello che è riuscito a fare lui nel ‘900 a livello di realizzazione, di immaginari , di innovazione, di creatività, ha rappresentato una svolta totale per questo tipo di lavoro. Lui non è stato solo lo scenografo, ma è stato uno dei primi ad avere un’idea precisa dell’opera totale, con la multidisciplinarietà e la multivisione.
Ovviamente sono molto legato alla generazione dei grandi show designers angloamericani, mostri sacri come Marc Brickman, Mark Fisher, Patrick Woodroffe, Paul Normandale, Anton Corbijn, ma apprezzo tantissimo i recenti approcci trasversali di Willie Williams, Roy Bennet, Oli Metcalfe. Ultimamente ho visto in giro molti giovani di talento, e sono veramente contento di questo: credo che in questi anni ci sia un’ondata pazzesca di creatività nuova, a dispetto delle condizioni di crisi in cui ci troviamo.
Che cosa vuol dire per te essere light designer?
Devo confessarti che per il mio tipo di approccio trovo spesso limitante parlare esclusivamente di luce senza affrontare in modo complementare le tante tematiche legate alla percezione visiva nell’ambito di uno spettacolo. Show designer o visual director credo che sia la definizione più giusta per il nostro lavoro, con la necessaria consapevolezza di esprimere solo uno dei mille mondi possibili. Ritengo invece che la figura del progettista della luce abbia la sua massima espressione e riconoscibilità in ambito civile, un architetto che si occupa di luce, magari con un taglio etico: civile perché lavora per la gente, e civile perché ha il compito di rendere fruibili, piacevoli e spesso sorprendenti i luoghi spesso anonimi in cui la gente vive e lavora. Nello spettacolo è molto relativo, parliamo di lighting design soprattutto per semplificare. Mi piace definirmi “architetto dell’effimero”, progetto ambienti destinati a vita breve, brevissima, costruzioni all’interno delle quali la luce va ad intrecciarsi alle architetture sonore, alla narrazione del cantante, va ad amplificare le emozioni, a suggerire interpretazioni. E’ una definizione ambiziosa, multidisciplinare, trasversale.
Come si lavora con la luce in un concerto musicale, e come può uno show designer rielaborare idee di altri che lo hanno particolarmente colpito?
Mi piace questo paradosso: io mi occupo del buio! Ho imparato con l’esperienza che la vera abilità sta nel gestire i vuoti più che i pieni, perché è sempre più facile aggiungere che sottrarre.. Quando parliamo di luce ovviamente non ci riferiamo solo a sorgenti illuminanti, oggetti illuminotecnici, ma parliamo di tracce impalpabili, di modellazione ambientale. Lo spazio è disegnato anche dalla luce. Io non ho un approccio troppo disciplinare, quando penso alla luce la mia idea si modella in funzione dell’obiettivo. La sua “funzione prima” in termini semiotici è quella di illuminare, permettere la visione di oggetti, persone e ambienti, modellando plasticamente lo spazio, la sua “funzione seconda” è quella di essere essa stessa narrazione emotiva, nell’alternanza appunto di buio e luce, colore e contrasto, senza dover necessariamente illuminare qualcosa: nel mondo dello spettacolo potremmo discutere quale delle due funzioni sia più importante. Direi che una volta trovata quella soglia percettiva che rende fruibile al pubblico la performance, sicuramente per me risulta più interessante esplorare l’altra sfera.
Gli spunti di innovazione in realtà sono pochissimi e quando arrivano sono dei lampi di genio, riservati a pochi eletti: la creazione è un riassemblaggio di cose già esistenti, e finché riusciamo ad estrapolare idee da contesti e le rielaboriamo per adattarle a contesti nuovi siamo di fronte ad un atto creativo costante e infinito. Pensando in grande, il salto in avanti a livello di progettazione credo sia stato fatto dagli U2 nel loro ultimo tour 360°, perché a livello quantitativo, prima di loro, nessuno aveva mai realizzato una cosa del genere. Hanno fatto una cosa talmente “oltre” che nessuno, proprio nessuno, è in grado di fare una critica tecnica, possiamo disquisire dello spettacolo, ma dobbiamo prendere atto che hanno spostato di molto in avanti la soglia dell’architettura effimera. Qualcuno dice anche troppo, tanto che forse è il caso di fare dei ragionamenti sulla direzione intrapresa.
Parliamo delle tue ultime creazioni. Puoi raccontarmi il processo creativo dei tour di Elisa Mechanical Dream , e di Heart Alive Tour?
Io lavoro con Elisa dal 2006. In quell’anno abbiamo realizzato un tour, Soundtrack, con una parte invernale e una estiva: il palco dell’invernale era costituito da una multiproiezione su otto schermi, abbastanza classico come impostazione, ma molto raffinato, lineare, geometrico, esperienza totalmente trasformata in estate quando sul palco, ripulito di tutto, sono state inserite ben 80 piante di bambù vere, alte 4 metri. E’ stata una trovata particolare, perché in realtà non abbiamo inventato niente, abbiamo solo preso delle piante da un vivaio di Pistoia!
Ogni sera, alle 20, dopo il soundcheck, le piante venivano annaffiate, e ogni tanto dovevamo chiamare un giardiniere a potarle perché germogliavano in continuazione. A fine tour Elisa le ha trapiantate nel suo giardino a Monfalcone, dopo sei mesi ha dovuto estirparle perché avevano invaso la casa del vicino e stavano minacciando le fondamenta.
L’anno successivo è stata la volta di Mechanical Dream Tour, poche date per un grande show in cui abbiamo unito più arti. Taglio cinematografico sempre presente, e video più spinti del solito, accanto a coreografie e movimenti provenienti da vari elementi. A lei è venuta l’idea di chiamare Luca Tommassini per costruire le coreografie. Tutto è nato su indicazioni molto vaghe, ma quello che Elisa aveva chiaro era il titolo, quel tour doveva in tutti i modi chiamarsi Mechanical Dream, il sogno meccanico. Ho dovuto interpretare cosa volesse dire, ma la chiave di volta è arrivata ancora una volta da lei che mi ha raccontato il forte legame con la sua terra di mare, di cantieri navali. Sono così entrato in contatto con un immaginario di navi, di cantieri, di lavoro: un immaginario pazzesco, che io da milanese conoscevo a mio modo, vista l’archeologia industriale di cui le nostre metropoli sono ormai permeate, e mi è bastato poco per cogliere alcuni elementi tipologici, ferraglia, oggetti arrugginiti, forme pesanti, rumori.
Io ho fornito a Luca un contenitore molto grosso e articolato per poter ideare le sue coreografie, un palco alto 4 metri, diviso in due parti entrambe adibite alle performance; unendo le nostre competenze è venuto fuori un lavoro di cui vado molto fiero. Elisa si è occupata della parte musicale che ha incastrato perfettamente con le nostre scelte estetiche: lei descrive un’atmosfera particolare che vorrebbe all’interno di ogni pezzo, e noi costruiamo cose su quella sua idea, su quel suo sogno.
In fase di ideazione bisogna avere intuito nel trasformare in realtà gli input dell’artista. In Heart Tour, ad esempio, ci sono stati dei problemi nella fase iniziale proprio perché con Elisa non ci eravamo capiti, il palco che le avevo inizialmente proposto era totalmente differente a quello che poi abbiamo realizzato, ero andato in una direzione progettuale sbagliata, troppo tecnologica, con una preponderante sezione hardware video, peraltro con grossi costi previsionali. Non avevo ben colto delle atmosfere che lei (neo-mamma: un aspetto non trascurabile) mi aveva narrato, e in corso d’opera ho dovuto a un certo punto fare umilmente marcia indietro e rituffarmi nel progetto per crearne uno nuovo. Così è nato il palco di Heart Tour, la cui ispirazione è arrivata improvvisamente da un quadro di Mauritius C. Escher intitolato Salite e Discese, inno alla metamorfosi e all’illusione prospettica. Ho iniziato a giocare con livelli, scalette, rampe e un insieme di solidi primitivi, di forme infantili assemblate apparentemente a caso, disegnato andando anche contro i miei principi di simmetria. Una struttura giocosa, che poteva assomigliare ad un castello, tutto rivestito di bianco. Siccome la volontà di Elisa e Luca era di usare le videoproiezioni e non schermi led, gli ho fornito uno schermo totalmente non convenzionale, cioè l’intero palco! Elisa e la band si sono divertiti un sacco su quella struttura. In questo ultimo tour di Elisa, Heart Alive, abbiamo usato un tecnologia video di tipo mapping, che non consiste in semplici proiezioni in 3D, ma si tratta di proiezioni effettuate con dei software che fanno un rilievo dell’ambiente e delle superfici su cui si proietta, una specie di maschera sulla quale vengono proiettati contributi sfruttando le linee di fuga prospettiche. Se venisse proiettata la stessa immagine su un’altra superficie con un’altra forma, ad esempio una superficie piana, risulterebbe illeggibile: la proiezione si avvolge letteralmente sulla forma su cui è proiettata.
Qual’è stato invece l’input per l’ideazione del palco dell’ultimo tour di Gianna Nannini, il Gianna Dream Tour?
Gianna Nannini e il grande Pepi Morgia mi hanno chiamato per portare qualcosa di particolare sul palco del Gianna Dream Tour, con un interesse per il video, che avevano usato in maniera molto tradizionale nel tour precedente. Gianna è Gianna, è grande, potente, d’impatto, e bisogna stare attenti a quello che le si mette accanto. In ogni caso ho cercato una via per crearle uno “sfondo” adatto. È nata l’idea del cilindro a led, già ampiamente visto in televisione ma poco utilizzato nel live proprio per le sue caratteristiche tridimensionali di difficile gestione su un palco frontale tradizionale. Quello da me pensato è stato un cilindro atipico, perché la superficie luminosa che il pubblico vedeva come posteriore non era esterna, ma interna: la struttura era di fatto formata da uno schermo semitrasparente convesso sul fronte e da uno concavo sul retro posti uno di fronte all’altro, con un’apertura a metà per accedere allo spazio interno.
L’effetto era unico: se usavamo lo schermo frontale avevamo un effetto stondato delle geometrie, nel momento in cui facevamo entrare in azione quello posteriore le sue immagini si miscelavano con quelle del primo schermo con una geometria ribaltata. Senza creare geometrie in 3D, bastava ad esempio disegnare una riga orizzontale e mandarla in su e in giù per realizzare un anello in movimento.
Non c’era nessun tipo di contributo narrativo, perché per ottenere questo gioco di illusioni era necessario usare una risoluzione dell’immagine medio-alta che non era adatta per contributi di tipo figurativo sia preprodotti che live. Così ho utilizzato una serie di grafiche pescando da quelle vengono sempre scartate in un contesto standard perché ritenute troppo banali ma che paradossalmente che nel mio caso si sono rivelate efficacissime.
I Subsonica sono un gruppo adattissimo a svolgere un discorso legato teatralità all’interno del concerto, sia per la loro immagine, per il loro modo di stare sul palco, sia per le loro idee e per il loro modo di scrivere testi e musiche. Tu hai seguito i loro concerti dall’inizio della carriera, puoi raccontarmi la loro evoluzione a livello di progetto palco e concept dello show?
Gli allestimenti dei Subsonica sono cresciuti di pari passo con il loro successo. In ogni tour abbiamo cercato di aggiungere degli elementi dal punto di vista visivo che li rendessero riconoscibili, cosa che avveniva già nei loro video e nei servizi fotografici.
Con loro ho fatto sette tour. L’ultimo due anni fa, a mia vista il più bello, è stato L’eclissi Tour in cui ci siamo potuti permettere di sperimentare molto di più sull’aspetto visivo dato il budget leggermente più ampio. Loro hanno scelto di concentrare molta dell’attenzione sul visual, anche a costo di guadagnare meno. Volevano fare qualcosa di “eclatante”!
Io ho proposto loro di lavorare mixando in modo radicale, decontestualizzandoli, i canoni visivi consolidati dei loro due immaginari principali: la musica rock e la musica elettronica. Il rock ha dei suoi elementi iconografici standard, dei suoi stilemi, così come l’elettronica. Dovevamo provare a fonderli e a scombinare un po’ le carte: se nel rock il leader è il cantante che sta al centro, illuminato bene, con intorno tutto il resto del gruppo, nell’elettronica c’è un monte di macchinari, dietro a cui sta il dj al buio con alle spalle i visuals; ogni tribù hai suoi standard che vanno estrapolati dal contesto per essere trasformati. Questo è ciò che abbiamo fatto: innanzitutto abbiamo semplificato al massimo gli elementi, pensando al palco come ad uno spazio geometrico puro e assoluto, privo di spazi superflui.
Ho progettato un parallelepipedo largo 20 metri, profondo 4 metri, alto 2, totalmente nero, in cui la band era disposta allineata, un musicista accanto all’altro senza gerarchie; tutto il piano di calpestio era grigliato, tutti gli ampli, monitor, cavi e molte luci sono stati nascosti sotto; i tecnici, i backliner, il fonico di palco, che di solito stanno ai lati, sono stati posizionati dietro il parallelepipedo, in una specie di buca d’orchestra al contrario. I musicisti avevano comunque modo di dialogare con i tecnici, ma alle spalle. Delle luci mi interessava la funzione illuminante e la spinta dinamica proveniente dal rock mentre del mondo dance volevo l’attenzione maniacale al bpm e alla coerenza totale luce-suono. In questo contesto il layout grafico, che semplificando considero come la risultante geometrica delle linee (anche virtuali) tridimensionali su cui sono disposte le sorgenti luminose, doveva essere assolutamente coerente con i criteri estremi da noi adottati, cioè risultare scheletrico, essenziale, potente e macroscopico. Le luci e i video dovevano essere oggetti luminosi estremi: uno schermo led di tipo see-throw largo quanto l’intero palco l’ho messo davanti ai musicisti e uno identico dietro, movimentati da motori per inscatolare a piacimento le aree e anche le persone durante la performance. Le luci stavano sottopalco, allineate sul tetto o sul backwall ma sempre disposte in blocchi di tipologie omogenee non mischiate fra loro, Siamo arrivati ad avere quattro pareti costituite da elementi grafici, la cui interazione ha dato origine a tutte le forme plastiche che si possono ottenere da una configurazione così elementare. Era in fondo come un perseguire le linee grafiche degli strumenti di bordo dell’elettronica. Qui non sono stato certo minimalista, ma mi sono imposto di usare sempre un effetto per volta, però in forma macroscopica. Da questo tour ho sperimentato l’uscita da un mondo luci fatto di raggi classici tradizionali, di puntamenti “pettinati”, ho eliminato il controluce come da manuale e sono approdato al layout grafico, ed è stata una bella svolta stilistica.
Subsonica, Be Human tour. Le location erano i piccoli club, tour volutamente underground, lontano dalle produzioni da palasport, in cui veniva allestita una “gabbia” in layher (il materiale con cui si costruiscono le impalcature dei palchi) di 6 metri per 4, che li racchiudeva durante il concerto, e sulla quale erano appesi, come esplosi, una dozzina di semplici pannelli led come unica sorgente luminosa.
Di Claudia Frandi
Incontro nuovo per la popolazione riversatasi sabato 17 luglio nello specchio d’acqua di Portovenere. Grande l’impatto visivo per coloro che si sono ritrovati all’evento AQUATICUS (direzione artistica Anna Monteverdi).
Il tratto innovativo consiste nel potersi bagnare ed approfittare della chiusura alle barche dello stretto che congiunge via mare Portovenere con la Palmaria. In una cornice naturale si sono ritrovati a migliaia, come cavallette in un prato acquatico e hanno incontrato entrando nelle acque la voce di cetacei veri abitanti di questi luoghi. L’installazione sonora ad opera di Mauro Lupone (in coll. con Julio Urrego e Alessandro De Palma e con la consulenza di Paolo Varrella e Maurizio Wurtz). Attraverso un percorso di boe sonore è stato ricreata quella che può definirsi una nuova esperienza per la popolazione dei bagnanti. Esperienza sensoriale che unisce la naturalezza di un’ immersione in cui rieccheggia il ricordo di un rapporto stretto tra l’uomo e l’elemento acqua come memoria intrinseca dello stesso col suo rapporto col liquido amniotico unito all’elemento natura trovandosi, attraverso un altro dei nostri sensi, l’ udito, a tu per tu con animali che portano con sé la storia dell’evoluzione nella dolce culla creata dai loro suoni.
La sera il sole è calato, cambiando tratti al paesaggio, è cambiato anche il luogo della performance che si è spostata sotto la chiesa romanica arroccata di San Pietro dove il sipario si è aperto sull’installazione video dei Masbedo vera rivelazione che non stenta ad emergere e che ha dato nuova vita al paesaggio naturale in cui è avvenuta. La crisi tra questa e le musiche magistralmente portate sul palco dal bassista dei Marlene Kunz, Luca Saporiti, è stata inevitabile quanto attesa.
In entrambi i video proiettati si trovava il tema della resistenza dell’uomo a quelli che sono i ruoli imposti dalla società. La sua soppraffazione davanti ad un’ esistenza arida ben definita dai paesaggi che il video presenta.
Una natura impervia. Una Natura Contro. Contro l’uomo e il suo percorso in una vita che sempre meno gli permette di alzare la testa, di essere strettamente umano. Il primo dei video “Schegge di incanto in fondo al dubbio” era in parte girato nelle acque dello stretto di Portovenere, con un richiamo insistente dunque di continuità tra le immagini ed il paesaggio che le ospitava.
Le immagini ed i suoni si susseguivano come una marcia rombante che attraversava lo spettatore lasciandolo testimone del momento e portatore attivo di significati in lui riversati e da lui liberati in una commistione che lo univa nel momento della visione a quello che E’ il mondo dei Masbedo.
Un Mondo rivelatore di significati e portatore di tematiche forti affrontate in un modo tutto nuovo.
Senza questa giornata non ci sarebbe stato quello che si spera solo il primo degli incontri tra il pubblico vero e proprio, quello che si riversa nelle piazze e nei piccoli teatri, con l’impronta video più innovativa che si può incontrare solo nei grandi palchi, durante incontri più di élite.
La mostra (14 maggio – 18 luglio 2010) che viene presentata alla Galleria Strozzina all’interno di Palazzo Strozzi a Firenze affronta la tematica del tempo all’interno della cosiddetta “high speed society”, il modello di vita caratterizzato dalla rapidità di comunicazione e produzione dettata dalle possibilità delle nuove tecnologie, attraverso il lavoro di 10 artisti internazionali.
Di Francesca Pasquinucci
L’avventuriero del linguaggio
«Penso che Duchamp, come dai suoi diari, abbia girato la ruota perché si stava annoiando. Può essere anche un suo modo di dichiarare qualcosa, però ci posso credere che lui fosse a casa di sua sorella, ha preso questa ruota e l’ha girata. Altrimenti saremmo tutte persone che ogni giorno si svegliano con l’ansia di produrre qualcosa».
Avrei voluto conoscerlo da piccola. Mi avrebbe trasmesso l’entusiasmo per la complessità, delle cose, ferme e in movimento, degli eventi, dei pensieri e delle parole, delle piante, degli animali. Delle persone. Avrei capito che per impossessarci di una qualsiasi verità della Natura, osservandola con l’occhio di artista, di scrittore o di commercialista, è inutile partire dalle cose più semplici: la semplicità non esiste. Tutto nasce complesso, tutto è intriso di una magia naturale molto più profonda di quella che ci immaginiamo. La complessità è un albero e la semplicità ne è il frutto.
Sergio Pappalettera è un avventuriero del linguaggio. E’ un artista che si “accontenta” del mondo, perché “è un posto non ancora del tutto scoperto”, e per questo crede che la fantascienza sia un porto dell’immaginazione ancora lontano.
Il Big Bang dell’universo artistico di Pappalettera, avviene ogni giorno nello Studio Prodesign di Milano, officina delle cover dei dischi dei più importanti musicisti italiani, e luogo di progettazione di comunicazione e linguaggi, legati all’evento dal vivo.
E’ uno dei “guru” italiani della sperimentazione visiva, collaboratore dalle per le performance live e per i progetti grafici di Lorenzo Jovanotti Cherubini.
La storia di Sergio Pappalettera è ricchissima di creazioni ed eventi.
E’ nato a Milano il 15 settembre del 1961. Ha frequentato il liceo artistico, la facoltà di architettura al Politecnico di Milano, e ha fatto parte della Scuola del Cinema di Milano. Agli inizi degli anni 80 ha fondato lo Studio Prodesign, orientando la propria attività nell’ambito musicale; innumerevoli le collaborazioni con i più grandi artisti italiani: possiamo citarne alcuni, tra cui Franco Battiato, Renato Zero, Laura Pausini, Giorgia, Gianni Morandi, 883 e Max Pezzali, Pino Daniele, Adriano Celentano, Irene Grandi, Timoria, Raf, Mario Venuti e Nek, per i quali ha realizzato le cover destinate alle loro produzioni discografiche. La sua collaborazione più grande rimane tutt’oggi quella con Lorenzo Jovanotti.
E’ stato scenografo per tour musicali e per il teatro. E’ stato regista di videoclip musicali, premiati dalla critica negli anni in cui sono stati prodotti: Forma e sostanza (1997) con Giovanni Lindo Ferretti dei CSI, File not found (2001) e Salvami (vincitore nel 2002 del Premio per la regia del miglio video di Ricerca) di Jovanotti. Sempre per Jovanotti ha prodotto un video sperimentale girato in super 8, dal titolo Mamillapatalla, una sorta di diario-racconto della realizzazione del disco Capo Horn del 1999.
Nel 2000 ha realizzato un cortometraggio intitolato Venceremos selezionato come film per il Sundance Film Festival e Festival di Locarno.
Molteplici sono i premi da lui ricevuti nel corso della carriera oltre a quelli già citati, tra cui il riconoscimento per le opere realizzate in campo grafico e per le videoinstallazioni ricevuto a Brescia Music Art nel 2000, e il premio per il mediometraggio Mario il Cavallo ritirato nel 2001 al Roma International Film Festival.
Nel 2004 l’Istituto di Cultura Italiana in Brasile ha organizzato una mostra su tutte le più importanti cover della musica italiana di Pappalettera, accanto ad una personale sulle sue opere, dedicandogli un intero piano del Palazzo di Giustizia Federale di Rio De Janeiro.
Il 2008 è l’anno della personale Il gioco del mondo in Triennale Bovisa a Milano: un progetto di grande successo, che ha visto la partecipazione di Lorenzo Jovanotti e Aldo Nove, il cui tentativo è stato quello di modificare la chiave di lettura dell’esposizione delle opere d’arte. Attraverso il lavoro svolto dall’artista, lo spazio dedicato alla mostra ha ospitato opere che hanno rielaborato il concetto di “gioco e i suoi oggetti”, come reinterpretazione di elementi comunicativi e simbolici.
Nel corso degli anni ha maturato esperienza nel campo dell’insegnamento: dopo aver collaborato come docente in alcune Università lombarde nei corsi di Comunicazione Visiva e Graphic Design, è attualmente titolare della cattedra di Crossmedialità e Creatività presso lo IULM di Milano. E chi meglio di Pappalettera può insegnare la materia, lui che utilizzando l’arte e i mezzi informatici è riuscito ad alternare, e forse anche a combinare, marketing artistico e show design. La crossmedialità, cioè la dimensione permessa dalla convergenza digitale per le attività di creazione e di distribuzione dei contenuti informativi o di intrattenimento, fruibili a richiesta in diversi formati e su diversi apparecchi, è la nuova frontiera dell’offerta di mercato.
Varco la porta del Prodesign in una fredda giornata di inizio Dicembre, giusto qualche giorno prima che l’Italia di fine 2009 venga completamente coperta dalla neve. Allo Studio c’è anche la cucina, che si fa posto tra le immagini de Il gioco del mondo.
E il caffè di Sergio è sempre pronto…
Qual è la tua storia? Come sei arrivato ad essere Pappalettera illustratore di copertine, regista e show designer? Come mai hai scelto questo settore particolare?
Potrei dirti che la mia carriera di artista è iniziata frequentando il Liceo Artistico.
Erano gli anni ’70, e Liceo Artistico significava imparare tre forme di comunicazione ben precise: scultura, pittura, architettura.
Io ero poco interessato all’architettura e non conoscevo la scultura: per me era importante disegnare. Il liceo mi ha dato la possibilità di approfondire i rapporti con i miei professori che erano pittori, e il fatto di essere pittori impegnava noi studenti a frequentare mostre e gallerie, a entrare in contatto con la figura dell’artista vero e proprio. Così, dopo un bel periodo di frequentazioni di persone ed ambienti, ed ovviamente di studi, iniziai a sentirmi artista anche io. Fu il momento in cui dissi «ok, voglio fare questo mestiere, voglio fare l’artista».
Poi però, quando frequentai l’Accademia, in modo un po’ presuntuoso pensai che il pittore lo potevo fare anche senza una preparazione accademica: mi volevo cercare un ruolo diverso e mi iscrissi alla Facoltà di architettura, mantenendo sempre l’interesse per il disegno, passando attraverso “fasi” come il surrealismo, l’informale… Questa è la ritengo una cosa bella, perché tutti passano le fasi, un giorno sei Dalì, poi l’altro giorno sei un Informale, poi sei Pollock e due settimane dopo diventi Fontana che taglia le tele! E’ una cosa normale, fa parte del bagaglio di esperienza personali, che va riempito il più possibile.
Oltre ad essere divertente è anche importante, perché è un percorso, una conoscenza delle varie ramificazioni della materia che diventa oro quando sei più grande. Tecnicamente è una ricchezza immensa, perché nel tempo ti accorgi veramente di saper usare le mani. A me è successo così.
Tornando agli studi di Architettura, in quel momento non capivo nemmeno io che cosa fosse la figura dell’architetto: è utile ripetere la data, inizio degli anni ’80, per ricordare che Architettura voleva dire Archittettura o Urbanistica, ancora una volta a differenza di oggi che ha vari distaccamenti che vanno dal Movie Design al Design applicato, etc.
A quel tempo dovevi diventare come Renzo Piano o Le Corbusier, o un tecnico del territorio.
In quel periodo però, presso il Politecnico di Milano, grazie a Cesare Stevan, nacque un Centro di Documentazione Video: Stevan comprò delle Betacam, io mi avvicinai a questo Centro e alle macchine da presa, e insieme ad un altro allievo e ad un assistente, cominciammo a fare dei documentari. Da qui la grande passione della ripresa. A questo punto per me poco importava che andassi a riprendere un mercato della frutta o degli elementi di architettura, era fondamentale il mezzo. Iniziammo a giocare con i mezzi a disposizione, producevamo un sacco di video, e la passione crebbe così tanto che arrivato all’ultimo anno di Architettura mi iscrissi alla Scuola di Cinema, capendo che a me interessava raccontare con le immagini.
Nel frattempo aprii uno studio di grafica per sopravvivere; con molta fortuna facevo l’assistente ad un gruppo che si chiamava Plagio con il quale, nel periodo in cui lavoravamo per Fiorucci, inventammo i famosi angeli con gli occhiali. Questa fu l’occasione per incominciare a mischiare tutti quei linguaggi imparati al liceo. Iniziò a chiudersi un cerchio sensibile e fortunato, quello dell’espressione. Vorrei aggiungere un dettaglio: studiavo chitarra classica, e avevo l’opportunità di capire il senso dell’espressione anche a livello musicale.
Facevo un sacco di cose, col rischio di farle tutte male, ma capivo che era un punto a mio favore perché sapevo fare tutto spinto dalla voglia di conoscere tutto, un tutto, s’intende, ristretto al campo dell’arte.
Il video e la fotografia entrarono prepotentemente nella mia vita, ovviamente in maniera analogica: il computer iniziò ad arrivare quando io facevo già il grafico con la colla e la carta, con le immagini prese dai libri e dalle riviste che io andavo a comprare a New York.
New York e il Giappone per me erano la base di una parte del mio lavoro: là andavo a cercare le riviste dove si trovavano i font, i caratteri, che una volta in Italia fotocopiavamo per inventarci caratteri nuovi da utilizzare nei lavori di grafica.
Avvicinarsi a tutte le tecniche, imparare più cose possibili, sperimentare più linguaggi, è come parlare una lingua universale nel momento in cui si lavora e si collabora con persone che svolgono lavori artistici diversi.
Posso fare un esempio in parallelo con la musica: da chitarrista classico non mi ero mai avvicinato alla musica elettronica, e adesso, a cinquant’anni, mi trovo ad essere innamorato della musica elettronica, non solo di quella colta, ma di quella dance! Sembra un paradosso, ma è la voglia costante di scoprire che ti porta fare questo; non credo tanto nel “mettersi in gioco”, credo piuttosto nel “divertimento” di conoscere una cosa nuova, che non ti annoia mai. Tanti sostengono che l’unico difetto può essere quello del non andare mai veramente in profondità nelle cose, ma secondo me non è vero, anche l’andare troppo in profondità può nascondere grandi mancanze. Per tornare alla similitudine musicale, l’esecuzione non è la creazione, un musicista può essere un grande esecutore, ma non vuol dire per forza che sia un grande compositore o comunque un grande comunicatore di sensazioni.
C’è un bellissimo testo di Nelson Goodman in cui si parla dell’interpretazione, dove l’autore si chiede se una canzone triste debba avere anche un interprete triste: la risposta è no, l’interprete deve essere bravo a dare quella sensazione e lo può fare conoscendo tutte le sensazioni e gli stati d’animo dell’essere umano.
Questo per dirti che sin da giovane ero stregato dall’idea che la creatività fosse una dimensione superiore.
…che cosa ti attraeva del video?
Il fatto di essere duttile, veloce, che poi è il motivo per cui è diventato sostitutivo del cinema perché è più duttile. Per questo mio modo di essere molto infantile, ero e sono molto affascinato dal video perché mi dà la possibilità dell’immediatezza; ho bisogno di tempi più ristretti proprio per un fattore caratteriale. Il set fotografico, per esempio, mi annoia: la meticolosità e l’attesa per me sono fonte di noia e mi sembra di non poter esprimere al meglio delle cose che vorrei fare. Inseguo da sempre la filosofia dell’azione intesa come il “fare”: mi piace il concettuale nella fase dello studio, ma nel momento dell’esecuzione ho bisogno di immediatezza. È un po’ come accade in musica con il solfeggio, che è ritenuto dagli studenti una cosa massacrante, che ti fa quasi pensare di smettere di suonare; però poi ti accorgi che anche la fase del solfeggio è fondamentale perché non solo è una possibilità di lettura e di interpretazione della musica, ma di scrittura. Dopo un lungo studio, il solfeggio diventa come una cosa innata, non ci si chiede più i perché della posizione dei pallini neri sullo spartito, tutto diventa linguaggio libero.
Quindi ritengo che la fase dello studio metodico e noioso, anche paranoico, è la più interessante; la parte pratica non deve più essere metodica, deve essere libera.
In ogni caso non bisogna mai creare un confine tra la zona della teoria e la zona della pratica, è la regola per un buon risultato nella comunicazione!
Come è nato lo Studio Prodesign?
Lo Studio è nato negli anni ’80. Come ti ho detto andavo a New York a comprare riviste utili per i miei lavori. Acquistai una rivista di skateboard che in quel momento, in America, era un vero e proprio fenomeno.
Le riviste di skateboard avevano una grafica accattivante, ed erano bellissime da guardare, con tutte quelle immagini di ragazzi che saltavano con quell’aggeggio sotto i piedi. Io ne ero estasiato, era un mondo fantastico. In una di queste, tra gli annunci di massaggi, c’era la pubblicità di un negozio californiano di disegnatori di skateborad che si chiamava Prodesign, ed io, dentro di me, pensai «Studio Prodesign…bellissimo!!». E così arrivò il nome dello studio.
Non è un nome da leggersi a favore del design, perché in realtà a me il design non piace, molte volte è assurdo. Io sono per il bel disegno delle cose, e penso che l’esasperazione nel disegno degli oggetti, soprattutto quelli di uso comune, sia una follia.
Sin dalla sua nascita il Prodesign ha realizzato copertine dei dischi, dopo aver lavorato nella moda con Fiorucci e Avirex, per citare due nomi.
Ci sono stati una serie di incontri che hanno permesso di svilupparci nel settore musicale: il primo fu quello di mia moglie Patrizia Ferrante nell’ ’81-’82 (allora non eravamo ancora sposati…) con Claudio Cecchetto, che ci chiese di rilavorare al marchio già esistente di Radio Deejay. Nel frattempo nacque Radio Capital, e venni chiamato a disegnarne il marchio e l’immagine della radio stessa.
Inizialmente, moltissimi sono stati i lavori per le produzioni dance, perché in quel periodo era quello che andava, ed era anche l’epoca in cui nascevano le radio libere: disegnavo copertine per artisti internazionali, che facevano tre pezzi e poi sparivano dalla circolazione, ma vendevano milioni di copie.
Le prime copertine veramente importanti sono state quelle per Jovanotti.
Lui aveva già un disco alle spalle, La mia moto, e fa un salto di qualità passando immediatamente a Giovani Jovanotti.
Andai a sfogliare una vecchia enciclopedia americana, tra quelle pagine vidi una persona seduta con la camicia a fiori e arrivò l’idea per la copertina. Il disco si chiamava Giovani Jovanotti e inserimmo dei bambini che volavano… era un primo tentativo di imitare le copertine fantasmagoriche dei dischi stranieri. Ero convinto che anche in Italia si potessero fare delle cose belle come quelle: con coraggio e voglia potevamo uscire dallo standard del ritratto del cantante.
Negli anni ’70 l’illustratore di copertine, abusava un po’ dell’areografo: in ogni caso si trattava di grandi artigiani dell’immagine. Il modo artigianale di produrre immagine portava sempre a dei risultati superlativi, era una possibilità di creare dei mondi, non dimenticandoci che la forma dell’Lp forniva lo spazio ottimale per arrivare a questa magia.
La varietà degli studi del liceo tornarono in aiuto ancora una volta per la mia avventura nella creazione delle cover dei dischi italiani.
L’uso di vari linguaggi e di varie tecniche, la funzionalità della comunicazione, le riflessioni sui suoi risultati sul pubblico, sono venuti fuori anche quando hai iniziato a lavorare nei concerti?
Sì, e la collaborazione con Jovanotti è stata fondamentale per capire ancora meglio i segreti della Comunicazione.
Lorenzo è il primo che mi ha dato fiducia. E’ l’artista italiano più adatto a sviluppare un lavoro di concept e di elaborazione della comunicazione, all’interno della dimensione live. È uno che è molto ricco di ritmo, e la comunicazione stessa è ritmo, è movimento.
Non a caso nella fase di messa in scena le più grandi discussioni vengono fuori tra chi fa le luci e chi fa i video, perché sono due soggetti che attraverso il loro mezzo hanno la possibilità di raccontare a modo proprio la stessa storia, lo stesso messaggio. Ci potremmo quindi trovare di fronte a due narrazioni diverse dello stesso soggetto.
Le immagini sono pulsazioni, sono movimento, sono emozioni che vanno a tempo con la musica. Allora è chiaro che il ragionamento sulle potenzialità della comunicazione si fa serio quando si lavora con un personaggio come Lorenzo, che intraprende un percorso che va dalle canzoni vere e proprie, con dei testi, con dei contenuti, con delle parole, su cui io posso e fare delle considerazioni, al ritmo che funziona anche da solo, senza parole, e dona altre emozioni introducendo per esempio una serie di suoni accattivanti come tamburi africani o altri accenni di musica etnica inseriti a dovere in punti strategici e soprattutto in modi strategici. Diventa il territorio della sperimentazione pura, e accetta anche di lavorare su un territorio di un’immaginazione non stereotipata, ma piuttosto un’immaginazione che procede per contrapposizione. Il rischio che l’immagine, l’emozione non arrivino c’è sempre, ma in vent’anni acquisisci un’esperienza tale che diventa mestiere, impari dei meccanismi automatici dell’emozione stessa, sai che alcune cose funzionano sempre e altre invece non funzionano. L’esperienza è la base di tutto, ma bisogna avere la fortuna di trovare chi ci da la possibilità di farla!
Parlando di live, qual è stata la vostra prima collaborazione?
Il primo tour che abbiamo fatto insieme è Carboni – Jovanotti, nel 1992. Quell’anno, e quella produzione hanno rappresentato per Lorenzo una svolta sia dal punto di vista musicale che di popolarità. Il successivo è stato il tour legato a Penso Positivo, nel 1994.
Già nel ’92 Giancarlo Sforza introdusse delle innovazioni per il concerto dal vivo. Fece scalpore veder portare sul palco un canestro da basket. Il palco, per pochi minuti diventava un campo da basket, e i due cantanti erano i giocatori di una mini partita.
Fa un po’ ridere ripensarci, perché era una cosa molto piccola, ma anche questo abbozzo di interazione di Lorenzo e Luca con la palla da basket rappresentò in quel momento una grande novità. Il concerto diventò qualcos’altro, venne abbattuta la sacralità dell’artista, della pop star.
Molto probabilmente niente era studiato dal punto di vista prettamente concettuale, ma c’erano comunque delle intenzioni per lavorare su qualcosa di nuovo.
Di li in poi è stato un crescendo…
Sì, e la tecnologia è stata di grande aiuto nella nostra evoluzione.
Nei primi tour c’erano le video proiezioni, per le quali usavano delle enormi macchine che venivano dalla Francia, ed erano state utilizzate anche per proiezioni sulla Torre Eiffel.
Le prime proiezioni veramente potenti non mi consentivano di lavorare su immagini “cinematografiche”, era già un risultato se riuscivo ad animare delle grafiche. Io potevo disegnare delle figure su pellicola, e loro, i francesi, riuscivano a fare una pseudo animazione. Per noi era già un successo riuscire a proiettare delle immagini di quelle dimensioni e con quella luminosità.
La luminosità era l’aspetto tecnico più importante e più difficile. Tecnicamente era impossibile proiettare su una superficie di 25 metri per 30, non ci pensavamo neanche, non potevamo e basta.
Queste macchine riuscivamo a proiettare per 40 metri, ed era una cosa grandiosa per noi.
Col passare del tempo, piano piano, il mezzo ha cominciato a darci delle possibilità creative.
Ricordo che era un’emozione fortissima vedere il tetto del palazzetto coperto da un cielo stellato, cosa che oggi non farebbe più effetto, perché ormai il pubblico si è abituato ad un escamotage del genere.
Lo stupore viene dettato dall’ingigantimento; l’antropologo Gilbert Durand parla del concetto di “gulliverizzazione”: l’essere piccoli rispetto a immagini di cose o persone gigantesche, come quelle che possono essere proiettate durante uno spettacolo, produce un’emozione molto forte.
Per esempio, noi proiettavamo una boccia di vetro con un pesce rosso, larga 25 metri. Era gigantesca.
Nei live dei più grandi artisti si è visto di tutto, secondo te c’è ancora da inventare qualcosa che possa meravigliare o le soluzioni espressive sono già state sperimentate tutte? Credi che a un certo punto bisognerà tornare al minimalismo per suscitare emozione e stupore?
Non ho una chiave di lettura precisa per questa domanda, forse nessuno potrebbe dare una risposta, ma ci sono una serie di riflessioni che si possono fare.
Io credo che sia un punto di non ritorno inteso in un senso più che positivo. Penso che non siamo ancora arrivati a sfruttare potenzialmente tutte le nostre possibilità espressive, soprattutto dal punto di vista tecnologico. L’arrivo a questo punto di non ritorno è in realtà solo un inizio.
Il “ritorno” sarà invece ciò che è sempre stato, cioè rimarrà intatto l’aspetto sacro dell’artista, del performer, che fa un evento live.
L’elemento sacrale dell’uomo, della carne, che rappresenta se stesso ci sarà sempre, e sarà un fatto valutato e rivalutato, ma siamo coscienti che la tentazione è di andare oltre la rappresentazione di quello che vediamo oggi intorno a noi.
Non abbiamo fatto tutto, e in questo caso non parlo di tecnologia, che è arrivata ad un’altissima qualità e ci potrà aiutare sempre di più, ma parlo in termini di “opera totale”.
Il dono più bello dei mezzi tecnologici è la possibilità di mischiare i linguaggi. Questo non è stato ancora fatto completamente, perché è vero che sono stati usati i video post prodotti, i video prodotti in diretta, manipolati in diretta, il balletto, la parola narrata, etc..ma tutti ancora legati a quell’area sacra della centralità dell’artista.
Credo che oggi le potenzialità di questi mezzi possono portati a dire «Io sono quello che ha pensato l’opera, ma non è necessario che io sia lì, o se sono li posso essere anche virtuale». Sarà l’idea di espressione a contare, ovviamente insieme alla performance. Riuscire a concepire un’opera totale che funzioni con tutti i linguaggi oggi è una rivoluzione: il problema è che bisogna essere artisti molto bravi, molto preparati, per superare il concetto di artista incentrato su se stesso. Alla base ci deve essere una grande umiltà e una grande voglia di conoscenza, di collaborazione con altri artisti, e di venire in contatto con altre forme d’arte. Un artista deve anche avere il coraggio di ripensare allo spazio dello spettacolo, ancora una volta per superare il concetto di centralità: deve saper rinunciare all’essere al centro dell’universo della comunicazione.
L’uomo, inteso come pensiero e cervello, resterà comunque fondamentale per tutto, perché la tecnologia sarà sempre un qualcosa che si adatterà al cervello umano. Pensiero e idea sono ancora più avanti delle macchine.
Guardando al futuro e pensando sempre alla situazione concerto, secondo te è possibile sviluppare una vera e propria interattività’ tra palco e pubblico, con l’aiuto della tecnologia?
Certamente. Ma questa interazione non deve essere confusa con l’interazione dei multimedia. Purtroppo l’unico rischio della tecnica è quella che, parlando di interazione, ci si limiti sempre al mezzo multimediale.
Il mezzo ti illude e ti vincola a quel tipo di interazione. L’idea dell’uomo deve nascere da qualcos’altro, deve essere un’esigenza espressiva, solo successivamente il mezzo ci deve venire in aiuto.
Se è il mezzo che mi dichiara l’interazione, mi dispiace, ma è poco interessante.
È l’idea in se che funziona, l’idea che non deve essere subordinata alla tecnologia. È un passo importante e non facile, e non so se siamo ancora pronti: l’interazione in un concerto deve avere un senso, solo in questo caso possiamo dare la parola anche al pubblico diverso. Altrimenti rischia di diventare una velleità, quasi una dimostrazione di forza.
Ci deve essere un’esigenza precisa di interazione col pubblico, di comunicazione dell’informazione. Il mezzo rende tutto immediato ad è una figata, è vero, ma allora potrebbe essere interessante interagire inserendo una manipolazione dell’immagine di chi sta nel mezzo alla comunicazione: esempio, l’immagine che mi sta mandando la telecamerina che io ho dato ad uno del pubblico, oppure a cinquanta, o a mille, posso riutilizzarla come linguaggio, la manipolo e la rilancio su quello stesso pubblico.
Se la ridonassi così com’è ci illuderemmo tutti di creare linguaggio, ma in realtà non lo è.
Che cosa succede quando bisogna allestire un tour di Lorenzo? Come nasce l’idea e come iniziate a lavorare?
Le prime telefonate sono quelle per dire che si inizia l’avventura, per prenderne coscienza, e ci ritroviamo per sentire i pezzi nuovi e magari riflettere anche su quelli vecchi che verranno eseguiti nel concerto.
Poi ci sono le mail.
Lorenzo è capace di inviarmi, in una sola sera, mille e cinquecento immagini diverse, senza un minimo filo logico. Inizialmente sono delle immagini e basta, delle sensazioni: la sua risposta alla mia domanda sul perché abbia scelto quelle immagini è «Perché mi piace!». Ma allora ci sono cose che possono piacere anche a me, e Lorenzo mi dice di inserirle, di buttare dentro materiale interessante, magari anche solo a livello sensoriale.
E’ ancora una volta un po’ quello che succede ai bambini, che fanno una cosa perché a loro piace, perché funziona emotivamente.
Da questo tipo di ricerca nasce poi una strada da seguire, dettata da una selezione.
Il modo di lavorare di Lorenzo è appunto quello di propormi una quantità immensa di materiale, che poi io rielaboro nel mio studio, e gli ripropongo a mia volta per capire in che direzione creativa possiamo andare.
Potrei dirti che all’inizio c’è una specie di anarchia creativa, è il famoso sogno ad occhi aperti, poi ovviamente andiamo a studiarci tutti i riferimenti culturali, artistici, sociali delle immagini che abbiamo creato. In questa fase la presenza di Lorenzo è fondamentale perché offre degli stimoli incredibili.
Nell’intervista per l’inaugurazione della tua mostra Il gioco del mondo Lorenzo parla di una visione ludica, intesa come visione della vita. In fase di ideazione di un concerto voi pensate molto al gioco? Cercate sempre di mantenere un rapporto tra fantasia e realtà, oppure il vostro intento, utilizzando il gioco del video e dell’immagine, è quello di estraniare completamente lo spettatore?
L’aspetto ludico è molto interessante, perché rappresenta una premessa al divertimento. La componente ludica di partecipazione fa già divertire i partecipanti al gioco, prima che il gioco stesso abbia inizio.
Se tu pensi al tutto come a un gioco hai la garanzia di poter interagire, d’altra parte il gioco in sé non potrebbe mai essere giocato senza i giocatori.
In primis il gioco è interessante perché ha delle regole, quasi matematiche ma non così rigide come un’equazione, e la forza del gioco è la possibilità di poterle mettere in discussione.
Seconda cosa, il gioco è l’avvicinarsi all’irrealtà: il fatto che tu possa vestirti da Superman, ti fa sentire Superman, anche se poi ti butti giù dal palazzo e ti sfracelli perché non sei in grado di volare come lui. Ma questa è la grande forza del teatro, quella dell’irrealtà della maschera tragica del teatro greco. Come in teatro, nel gioco c’è la possibilità di avvicinarsi a qualcosa di impossibile.
Anche in tour ci avviciniamo a qualcosa di impossibile, arrivano 10.000 persone, sovraeccitate da un’aspettativa che l’artista non sa bene qual è. In realtà si tratta della partecipazione ad un grande rito, che lega tutti, dai ragazzi del pubblico, all’artista, ai tecnici. La partecipazione al rito, con l’acquisto del biglietto, l’attesa di ore fuori dal palazzetto, è fortemente adrenalinica.
Dal momento in cui tutto il pubblico entra nel luogo deputato allo spettacolo inizia il nostro lavoro, noi dobbiamo dargli qualcosa che lui si aspetta. Il rito diventa necessariamente qualcosa di stupefacente: se noi non facciamo entrare queste persone in una dimensione irreale la magia non si compie. (Lasciamo per un attimo da parte il fanatismo che porta le persone a vedere più volte uno stesso spettacolo, e ovviamente a sapere esattamente quello che succederà.)
Con Lorenzo la politica, l’intenzione, è sempre quella di fare entrare gli spettatori in un grande Luna Park. La definizione di Luna Park per noi è sempre accattivante, perché quando entri in quel luogo sei sempre un po’emozionato e un po’ spaventato perché andando sulle giostre metterai a repentaglio la tua vita, anche se sai benissimo che non è così perché tutto è controllato: ma c’è sempre quella possibilità su mille che il seggiolino su cui sei seduto si sganci, e questo pensiero ti dà adrenalina.
Oltre al gioco pericoloso c’è quello rasserenante, poi ci può essere quello che mette alla prova la tua abilità nel fare una serie di cose, etc etc… La metafora del Luna Park è bella perché esci e hai provato delle esperienze che ti sembrano uniche.
Il gioco rappresenta quindi il poter entrare un in un mondo fatto di irrealtà, costruendo dei nuovi linguaggi, perché nel gioco vale tutto: i bambini giocano inventando, sono pienamente coscienti che stanno operando di fantasia, ma si immergono completamente in quella, si immedesimano in tutti i personaggi e in tutte le situazioni da loro create.
Ciò che mi piace del lavoro con Lorenzo è che nell’immaginazione da noi sviluppata cerchiamo sempre di essere collegati alla realtà: ci piace immaginare un mondo nuovo, prendendo elementi del mondo in cui stiamo vivendo. Per capire questo concetto possiamo pensare a quanti giochi diversi si possono fare con le carte: il mazzo è sempre lo stesso, i segni sono sempre quei quattro, e i numeri hanno il loro valore sempre, ma i giochi sono svariati.
Io posso prendere due oggetti e creare una convergenza di significati tra di loro, posso prendere un leone e una madonna che accostati non vogliono dire niente per te, ma per me vogliono dire qualcosa; non inventiamo mai un animale a sette zampe, di raro arriviamo a certi livelli, prima di tutto ci interessa giocare con la realtà, con le cose che abbiamo già a disposizione. Questo rappresenta la possibilità di “descrivere” una realtà che per tutti è uguale, perché il mondo è lì a nostra disposizione, però cerchiamo di trovare delle chiavi di interpretazione diverse. La mole delle cose che non conosciamo del nostro mondo è vastissima, quindi possiamo lavorare su quella, rielaborarla, senza andare a cercare la fantascienza. Operiamo con la consapevolezza di aver conosciuto e di conoscere delle cose, le abbiamo già viste e studiate, e le rimettiamo in gioco, arrivando a descrivere una realtà. Credo che sia anche una grande dichiarazione di pluralismo intellettuale, in questo modo non c’è mai una verità assoluta. Quando si ha davanti un pubblico così numeroso, che ti attende per ore, e arriva di fronte al palco carico di adrenalina, entra in gioco l’onestà intellettuale dell’artista, perché deve scegliere quali significati donare ad un gruppo di persone che in quel momento può assorbire qualsiasi messaggio. L’artista deve dare la visione del “proprio” mondo, la sua verità, che può essere diversa dalla verità di ognuno dei presenti.
Viene intrapreso un dialogo con il pubblico, che potremmo anche definire dialogo del divertimento puro: giochiamo, con degli oggetti, con dei simboli, con immagini che hanno un valore semantico molto forte, con delle visioni nostre di un elemento della realtà che ci circonda, e durante i live non stiamo mai attenti alla bellezza della ripresa, ma piuttosto all’emozione che può arrivare da un’espressione di Lorenzo. Da parte del pubblico l’analisi, le domande, i dubbi, le riflessioni, credo che vengano fuori alla fine di tutto, nel rientro a casa. Questo è il gioco come noi lo intendiamo, in un luogo deputato al divertimento, alla creazione e all’espressione come quello del palco.
Tu hai lavorato per l’Albero Tour, per CapoHorn Tour, il Quinto Mondo e Buon Sangue. Qual è stata la particolarità di ogni tour dal punto di vista drammaturgico e dal punto di vista della realizzazione vera e propria, dei mezzi e delle cose usate?
La grande particolarità dell’Albero Tour è il palco centrale. E’ stata una grande intuizione di Giancarlo Sforza, e Lorenzo si è messo subito a disposizione per realizzarla nel miglior modo possibile. Il palco centrale porta ad una rivoluzione del tempo e dello spazio, è una situazione in cui la percezione del concerto cambia totalmente.
Per idea di palco centrale non intendo la visione a 360 gradi dello spettacolo, che esisteva già nella storia dei concerti, intendo un “centrale” che lancia dei flussi di energia, riconoscibili in alcuni aspetti molto tecnici, come ad esempio le passerelle che permettevano di arrivare molto più facilmente vicino al pubblico in alcune zone del palazzetto. Era un palco centrale dove avvenivano tutta una serie di sorprese, tra cui un altissimo albero gonfiabile che veniva su piano piano. C’era proprio l’intenzione di sorprendere, di non lasciare mai il pubblico concentrato su un’unica parte di spazio che è quella deputata al palco. Lì non c’era mai un’attenzione fissa, in ogni momento avvenivano cose in posti diversi: c’era una zattera da una parte, c’era un palco più piccolo dove si facevano dei pezzi in acustico, c’era ovviamente l’albero che cresceva, etc…
Quindi credo che la “frammentazione dell’attenzione” fosse la caratteristica più importante del L’Albero Tour.
L’obiettivo che ci siamo preposti in Capo Horn Tour è stato quello del coinvolgimento di tutti i sensi. Lo chiamerei il tour “sinestetico”.
Abbiamo fatto un esperimento (che poi era presente anche sul booklet del cd Autobiografia di una festa) di esaltare il senso dell’odorato: c’era il senso dell’udito, con i suoni, il senso della vista, con le immagini proiettate, il tatto, con il corpo che si muove, e stavolta c’era anche il senso dell’odorato, che era il senso che mancava in uno spettacolo, e che è una nostra caratteristica antropologica fondamentale. Era bello mettere in gioco anche senso un po’ abbandonato da tutte le forme di comunicazione.
Visivamente abbiamo continuato ed evoluto il progetto del tour precedente, infatti mentre L’Albero Tour aveva una drammaturgia frammentata, in Capo Horn invece c’è un racconto molto più uniforme, e il tentativo fu quello di creare un grande posto all’aperto, caratterizzato da un cielo stellato che copriva tutto il tetto del palasport.
Le proiezioni quindi non avvenivano più solo sul palco, ma anche in alto, sul soffitto, in modo che tutto il pubblico dentro il palazzetto avesse queste visioni intorno a sé, accostate agli odori: avevamo una vista che non era più separata, ma totale. Un dimensione psichedelica, intesa come coinvolgimento di tutti i sensi.
Per il Quinto Mondo Tour parlerei di “minimalismo rock”: luce bianca, annullamento di tutto.
Arrivando dalle due grandi esperienze multimediali e scenografiche precedenti, ci siamo concentrati sulla luce, sulla semplicità, e soprattutto sui contenuti video.
L’Albero Tour era molto teatrale, c’era una ancora una grande difficoltà a lavorare con le immagini digitali e si sopperiva con la scena, con le macchine vere e proprie, Capo Horn Tour era una prima opera totale, e nel Quinto Mondo Tour abbiamo iniziato a ripulire tutto e mettiamo su uno spettacolo della concentrazione visiva: visione e suono senza il resto.
Palco pulito, piatto, definito in gergo un palco “rock” composto da tanto ferro e un megaschermo.
Ci fu un’importante novità tecnologica: iniziammo ad usare il Gi-lec.
Una tecnica nuova, pulita, senza orpelli, senza decorazioni, senza nessun segno se non l’immagine digitale supportata da questo Gi-lec che era utilizzato dagli U2: a livello economico, il nostro era una categoria inferiore di investimento di quello utilizzato dagli U2. Era uno schermo con una grandissima luminosità, che ci consentiva di utilizzare i colori nella loro vera concretezza digitale, erano molto forti; rappresentò il superamento della rappresentazione video, perché il Gi-lec aveva dei Led che si avvicinavano più alla visione dei pannelli pubblicitari delle grandi metropoli (vedi Time Square a New York). Con il Gi-lec era inutile avvicinarsi alla realtà, tutto era molto forte, i colori erano spinti.
È stata una fase molto importante perché la realizzazione del tour è stata basica, senza orpelli, e concentrata solo sulla produzione di immagini, di colori, e di luci, e ha segnato il momento in cui abbiamo cominciato ad entrare anche in un ritmo diverso della rappresentazione e della costruzione dell’immagine: in poche parole, a quel punto erano solo due i protagonisti, da una parte la musica con Lorenzo, con il corpo, e dall’altra lo schermo. Era allora necessario creare una grammatica, costituita da saturazione del colore, montaggio serrato delle immagini etc..l’occhio doveva proprio impazzire.
In Buon Sangue Tour siamo tornati ad occuparci di spazio, e a fare delle cose diverse sugli schermi.
Come direbbe Zbigniew Rybczynski, abbiamo cominciato a concepire lo schermo non solo come potenzialità video, ma anche a separarlo, a vedere che gli schermi si muovono, a capire che su uno stesso schermo si possono fare tante cose diverse, per dirla semplice.
New Book e Tango dello stesso Rybczynski, per me sono stati un esempio, li ritengo una specie di Cappella Sistina del Video.
In Buon Sangue avevamo gli schermi che si potevano muovere, e si poteva mandare in onda una serie di cose insieme a delle altre, e il linguaggio che creavamo poteva essere molto vicino a quello della video installazione.
Stavolta l’intento era quello di portare avanti un lavoro molto più sofisticato, più cool, più intelligente e più concettuale. Era tutto molto più pop.
Abbiamo concepito una narrazione che prima era assente.
Per allestire Safari Tour, io e Lorenzo ci siamo messi a riflettere.
Creare immagini nuove vuol dire creare immagini che sono comunque già vecchie nel momento in cui le creiamo: sono immagini nuove nel linguaggio, ma non nuove in sé per sé perché la gente le percepisce solo come uno standard. Durante lo spettacolo, che io mandi un film di Buster Keaton o un’immagine girata da noi, per il pubblico è la stessa cosa, perché il mezzo di comunicazione è sempre lo stesso, anche se può cambiare il linguaggio.
Lorenzo però mi ha detto che aveva l’esigenza di andare oltre, aveva l’esigenza di spiegare che noi produciamo immagini e lo facciamo anche in tempo reale. Facciamo i veejay.
Il problema dei tour è che la date sono diverse, ma anche il pubblico è diverso, quindi tutte le persone hanno le percezione che il tour sia uno anche se io faccio uno show diverso in venticinque città.
Anche se faccio tutte immagini nuove, e Lorenzo fa una scaletta diversa ogni sera, per il pubblico l’evento è unico.
Allora ci siamo detti che l’unico sistema era lavorare su ritmi impossibili delle immagini e sull’improvvisazione. Il modo per arrivare ad un risultato di livello era elaborare software che ci permettessero di realizzare la nostra idea di ritmo: noi tecnici dovevamo stare in regia, lui doveva fare delle azioni, nel frattempo noi preparavamo dei filmati in post produzione e le sue azioni dovevano intrecciarsi con le nostre. In modo che lui non fosse mai pre-registrato.
In questo modo l’immagine video era veramente manipolata in diretta. Perché c’era la presenza della persona, cioè c’era Lorenzo con le sue azioni e io lo usavo come oggetto, come pixel, deformandolo, colorandolo, cercando di lavorare anche sul tempo.
Facciamo un esempio: tu salti, io registro il tuo salto in tempo reale, usando dei software lo separo in pezzettini, o posso vedere cinque momenti diversi… Sostanzialmente faccio una regia televisiva del secondo millennio.
Credo che il Safari Tour sia stato più degli altri un vero e proprio live tecnologico.
Avevamo una macchina che prendeva i segnali di luce da una semplice pila che teneva in mano Lorenzo e in tempo reale poteva trasformali in una scritta, in un disegno, etc..
La cosa importante è che l’uomo è sempre necessario, se non c’è il tuo gesto non esisto neanche io, questa è la filosofia. I Ragazzi della Prateria sono stati bravissimi nel creare questi software per l’elaborazione delle immagini in diretta, molto vicini alla videoinstallazione: ci possono essere vari riferimenti, come i tappeti di Studio Azzurro, e tutto quello che è videoinstallazione interattiva. D’altra parte la videoinstallazione funziona meglio quando è interattiva, perché ci dà la sensazione di partecipare all’opera.
Il live in ogni caso rappresenta il rischio, ogni cosa, ogni persona, può produrre un errore che può mandare in tilt un software, e di conseguenza non far accadere delle cose magiche; il Safari Tour può essere definita un’opera totale per la grandissima quantità di macchine e di persone impiegate, ognuno necessario all’altro, e ognuno necessariamente in perfetta sincronia con l’altro, per non arrivare all’errore. L’errore diventa creatività quando è cercato, non quando è errore vero.
Un lavoro mastodontico e difficilissimo.
Ma credo che il futuro sia questo, uno spettacolo caratterizzato dalla sempre più presente interazione con le macchine, che danno la possibilità di lavorare in mille modi sul tempo dell’azione.
Si inaugura il 1° Maggio a Forte Belvedere Gschwent sull’altopiano di Folgaria “La Fortezza della Emozioni ambienti sensibili multimediali per architetture di guerra in tempo di pace” realizzate da Studio Azzurro.
Tra le installazioni figurano:
Plastico Animato – la presenza del pubblico o un semplice gesto della mano attivano la proiezione di una serie di informazioni dinamiche, immagini e indicazioni, complete di commento sonoro, che permettono di comprendere meglio il mondo della fortezza.
Le Sentinelle – rappresentano le silhouette in controluce di militari intenti a varie attività.
Gli Obici di Luce – rievoca invece il telegrafo ottico collegato durante la grande guerra con la stazione situata sulla sommità del Monte Rust, nei pressi del Lago di Lavarone, ed è composto da un “tavolo delle comunicazioni”, sul quale viene proiettato un segno di luce seguito da immagini animate.
Diari dei Nidi delle Mitragliatrici – installazione grazie alla quale il visitatore vede in controluce dei lampi che simulano le fiammate della canna della mitragliatrice e sente il suono secco di una raffica, vivendo quindi un’esperienza molto intensa che ricorda quella vissuta da tanti soldati durante la Prima Guerra Mondiale.
L’Angelo degli alpini – installazione sonora: in un’unica esperienza percettiva si uniscono qui la bellezza naturale del paesaggio e quella poetica di testi dal grande valore storico e letterario.
Per le immagini copyright e gentile congestione di Studio Azzurro e Fototeca
Per gentile concessione di Massimiliano Pinucci