
Future Film Festival 2011
Di Carmen Lorenzetti
La tredicesima edizione del Future Film Festival, che si è chiusa sabato 23 aprile, è durata meno rispetto agli anni scorsi (quattro giorni invece di sei) ed ha visto una riduzione di quantità di incontri e film, questi ultimi già l’anno scorso ridotti di numero rispetto agli anni precedenti con la disponibilità di un’unica sala di proiezione. Rimane tuttavia un appuntamento interessante, di livello internazionale ed indispensabile nel panorama un po’ asfittico bolognese. Si sono visti venti lungometraggi, con molte prime, otto erano i film in concorso per il Platinum Grand Prize, sessantadue sono stati i cortometraggi provenienti moltissimi dalla Francia che si conferma paese guida nell’ambito dell’animazione. E’ stato introdotto un nuovo premio dedicato a La Polla, docente e collaboratore del festival di recente scomparso, dato a una tesi di laurea sull’animazione e le nuove tecnologie, che è andato a Alessandro Giordano per una tesi sui Mondi Invisibili. Per i corti il secondo premio del pubblico è andato ex-aequo a Mobile della tedesca Verena Fels e a Rubika di Claire Baudean, Ludovid Habas, Mickael Krebs, Julien Legay, Chao Ma, Florent Rousseau, Caroline Roux, Margaux Vaxelaire (Francia), il primo premio invece a Le Royaume/The king and the beaver di Nuno Alves Rodrigues, Oussama Bouacheria, Julien Cheng, Sébastien Hary, Aymeric Kevin, Ulysses Malassagne, Franck Monier (Francia), che narra in un infantile 2D di un re che si fa costruire un castello-torre in legno da un castoro, che però cade e allora si rivolge nel suo delirio alle talpe per farsi fare un castello-sotterraneo. La giuria di esperti degli shorts ha dato la menzione speciale a Rubika per “l’intuizione di trasformare un gioco tradizionale (il cubo di Rubik appunto) in un thriller gravitazionale”, con la terra per l’occasione trasformata in un gigantesco cubo. Il primo premio della giuria è stato elargito a Bottle di Kirsten Lepore (USA) per “la capacità di scaldare il cuore con una storia d’amore narrata con materiali poveri” quali il personaggio di sabbia di una spiaggia delle calde latitudini e la palla di neve di un blocco antartico sulla riva del mare, che alla fine decidono d’incontrarsi nelle profondità dell’Oceano, ma prima di raggiungersi si sciolgono e tutto finisce. Il Platinum Grand Prize è andato per la menzione speciale a Paul dello statunitense Greg Mottola per “la capacità di integrare personaggio digitale con il contesto reale”, invece il primo premio è stato dato a No Longer Human del giapponese Morio Asaka, storyboard artist e regista per il famoso studio MadHouse. Si tratta dell’adattamento del romanzo psicologico Ningen Shikkaku scritto da Osamu Dazai nel 1948, in cui viene narrata la storia di un giovane artista, che poi si scopre in realtà disegnatore di manga, dalla vita tormentata dalla ingombrante presenza (descritta in termini espressionistici quasi munchiani) di un lato oscuro che lo allontana dalla capacità di interagire in modo sano e concreto con la società. La storia si dipana con un andamento delicato ed introspettivo, coadiuvata dai disegni di fragile ed incantata bellezza di personaggi che talvolta si incastonano nei paesaggi come quadri del designer Takeshi Obata. Forse solo un altro film può avvicinarsi alla espressione lirica del vincitore, che tuttavia non era in concorso: Arrietty del giapponese Hiromasa Yonebayashi animatore dello Studio Ghibli (per il quale ha lavorato in La principessa Mononoke, 1997; La città incantata, 2001; Il castello errante di Howl, 2004 ecc). E’ la storia di piccoli esseri dall’aspetto umano, ma grandi pochi centimetri, che vivono prendendo in prestito ciò di cui hanno bisogno dagli umani, che però si rivelano crudeli e quindi i piccoli vivono nella paura e sono costretti ad andarsene dalle case degli umani grandi qualora vengano scoperti, come accade alla piccola protagonista Arrietty e alla sua famiglia. Altro film in concorso piuttosto deludente è stato Mars dello statunitense Geoff Marslett, che narra di una nuova corsa allo spazio tra NASA ed ESA per andare a conquistare Marte, con i tre astronauti della navicella protagonisti del viaggio. Viene utilizzata la tecnica del rotoscopio, cioè vengono ricalcate con il disegno le riprese dal vero. Ma i contorni troppo neri appesantiscono le figure, che non sono all’altezza di altri esempi meglio riusciti come Waking Life e A Scanner Darkly di Richard Linklater. Classico colossal del Sol Levante avventuroso e molto commerciale in concorso è Detective Dee and the mistery of the phantom flame del prolifico regista di Hong Kong Tsui Hark. E’ una storia epica con attori veri che narra gli ostacoli frapposti all’ascesa al trono della prima imperatrice donna della dinastia Tong (690 d.C.) legati ad una misteriosa fiamma mortale che si sviluppa dall’interno dei corpi di personaggi vicini all’imperatrice Wu Zetian. Dee svelerà attraverso duelli spettacolari e pieni di effetti speciali il mistero del complotto.
La serata inaugurale è stato proiettato Cappucetto Rosso Sangue della statunitense Catherine Hardwicke, che narra le vicende di un villaggio tormentato da un licantropo che uccide da anni gli abitanti. Al centro della storia c’è una giovane contesa tra due ragazzi, il ricco e il povero, che cercheranno di salvarla dal licantropo che la vuole portare con sé, per scoprire alla fine che… ma non voglio svelare la fine della storia. Il licantropo enorme fuori misura, risulta forgiato dagli incubi e tutto sommato è una figura un po’ ridicola. E’ stato poi dedicato uno speciale a Luc Besson di cui sono stati proiettati cinque film, tra cui gli ultimi Arthur et la guerre des deux monds, il terzo della saga, e Adèle e l’enigma del faraone. Il regista francese ha poi partecipato ad un animato incontro con il pubblico in cui ha svelato che al centro dei suoi film c’è sempre se stesso e l’onestà con cui si pone di fronte a una storia che deve potere parlare a tutte le persone, da qualsiasi paese provengano. L’ispirazione gli deriva dalla vita e dalla sua attitudine di avere i sensi ben desti nei confronti di ciò che di straordinario può sempre accadere. Afferma infine che non è poi così diverso dirigere attori veri o fare un film di animazione, dato che il punto di partenza è identico, poiché gli attori indossano le loro tute con i punti di riferimento, che poi serviranno agli sviluppatori. Ha poi parlato della sua collaborazione con Moebius, con cui ha lavorato per un anno durante la preparazione del Quinto Elemento, cui è stato dedicata la conferenza successiva. Si trattava di una lunga intervista in francese al grande disegnatore. Per tornare a Besson, ha terminato con una frase, che forse dovrebbe essere maggiormente diffusa, soprattutto tra coloro che sono eccessivi fans della tecnologia fine a se stessa: “un brutto film in 3D continua ad essere un brutto film”.
Valeva la pena di vedere Surviving Life del ceco Jan Svankmajer, maestro storico dell’animazione soprattutto in stop motion, ispiratore di registi come Tim Burton. La storia deve molto ad accostamenti surreali della tradizione anche pittorica degli anni trenta, con una trama dove sogno e realtà si sovrappongono con un sottofondo psicanalitico ed ironico. La semplicità del tratto restituito con semplici disegni e collage sulle persone vere con ampio uso di disgustosi primi piani rende la produzione fresca e godibile.
Uno dei focus era dedicato alla Cina con la sua regione dello Zhejiang, dove sono nate recentemente nuove case di produzione. Al festival è stato presentato un lungometraggio d’animazione in concorso: The dreams of Jinsha del regista cinese Cheng Deming, un tuffo in un passato mitico d’una civiltà sull’orlo della catastrofe salvata dal bambino protagonista della storia. Il risultato è stato piuttosto deludente, troppo lungo e con poco ritmo.
La proiezione dell’ultima serata è stata dedicata a I guardiani del destino di George Nolfi, liberamente tratto dal racconto di Philip K. Dick Adjustment Team. Si tratta di una potenza aliena e fantascientifica impersonata da uomini che dominano le scelte umane, apparentemente anche quelle più imperscrutabili e libere come l’amore. Così che il candidato a senatore degli Stati Uniti (Matt Damon) non è libero di amare una donna incontrata per caso (Emily Blunt), perché sarebbe secondo i guardiani un ostacolo per la sua futura carica di presidente degli USA. Ma il protagonista non si sottomette a questa legge apparentemente inscalfibile e si proclama fautore del proprio destino, vincendo. L’intreccio e il contenuto interessante forniti da K. Dick non riescono ad elevare il film ad un buon livello qualitativo.
Dato che abbiamo iniziato dalla serata finale non possiamo che terminare con l’evento iniziale a mio parere non abbastanza pubblicizzato, per quanto invece meritava la dovuta attenzione, dell’incontro con il pubblico del guru della intelligenza artificiale delle reti Derrick De Kerckhove in dialogo con lo storico e critico d’arte Renato Barilli. Si è iniziato con una riflessione sulla consapevolezza del cambiamento in atto nella società da parte dell’artista, in cui Barilli afferma che l’artista lavora da una torre di controllo, quindi partecipe dei cambiamenti umani, dato che viviamo in un campo unico, gestaltico, che coinvolge egualmente tutti. Così De Kerckhove prosegue affermando che oggi viviamo in una situazione ambigua, dove il linguaggio (connotato dall’avvento dell’elettricità nel mondo contemporaneo) si dipana in forma individuale e comunitaria come nei social network e vive in uno status connettivo, perché le intelligenze interagiscono nella rete. Non solo, ma siamo immersi in un mondo tattile, multisensoriale, con una configurazione nuova dei sensi al centro dei quali sta il nostro punto di vita e non più il gutenberghiano e distanziante punto di vista. Come distinguere oggi un’artista nella estetica diffusa, come afferma Barilli, nella quale viviamo a partire dal nuovo modo di fare arte degli anni Sessanta? Per De Kerckhove è artista chi riesce a creare un nuovo strumento tecnologico che avrà una ricaduta vasta sulla cultura e la società. Per cui è un’opera d’arte l’invenzione del WorldWideWeb nel 1994 di Tim Berners-Lee o WikiLeaks di Julian Assange: sono opere che “fanno la differenza nel mondo” secondo un concetto di arte non più vulcanica, ma omeopatica, cioè che entra nei gangli delle abitudini e coscienze umane. C’è un pericolo però anche nel presente dominato dalla rete e dalle nuove tecnologie, con un individuo che tanto più sparisce quanto più si sa di lui, viviamo quindi in una situazione paradossale, da cui siamo chiamati però ad uscire per evitare l’orrore del presente, trovando un’ecologia dei media.