Realtà aumentata, ok (e il valore?)
Di Stefano Adami
Di la dal mare li chiamano “hype”.
Sono le ondate semi-maniacali che glorificano l’ultima tendenza in tema di tecnologia, ma non solo.
Hanno vita media di un anno o poco più ma riescono a far danni, se influenzano le scelte di vita o di impresa dei più sprovveduti.
Molti dei “fan”, spesso i più superficiali, si trasformano allora in detrattori.
E via col prossimo hype.
Sul finire degli anni ’80, ad esempio, la realtà quotidiana, quella “che si tocca” sembrava destinata a volatilizzarsi.
Era il momento della “realtà virtuale”: uscita dai circoli delle teste d’uovo, subito applicata nel settore del gaming e presto amplificata da produzioni cinematografiche e riviste trendy.
Nel lungo periodo invece le persone e gli ambienti seri, lontano dalle grancasse mediatiche, lavorano per creare vero valore o per rivisitare criticamente le diverse fiammate.
La sfida oggi non sembra più quella di infilare a sei miliardi di persone un Head Mounted Display o un Virtual Glove, ma piuttosto sovrapporre alla visualizzazione degli oggetti reali un “layer” di informazioni utili.
In altri termini, si sta provando ad “aumentare” gli oggetti con altri oggetti, virtuali, consistenti ai primi per contenuto o per il semplice fatto di essere in prossimità.
“Dal pollice oppo-nibile all’informazione dispo-nibile”, verrebbe da dire.
In soldoni, una qualunque applicazione di Augmented Reality (AR) ha bisogno di un dispositivo di acquisizione di immagini, di una connessione in rete e di un dispositivo di visualizzazione.
Per farsi una prima idea sullo stato dell’arte è sufficiente la classica ricerca su Google, nemmeno avanzata (magari in inglese, però).
Non serve nemmeno una laurea in ingegneria per capire che la stragrande maggioranza delle applicazioni conta di far leva sulla diffusione ormai esponenziale degli smart phone (et similia).
Come ogni paradigma trasversale, però, la AR inizia a dare soddisfazioni su molti fronti e “ora si tratta di darle un valore economico”, per dirla con Bruce Sterling (nella Key Note di apertura di are 2010 – Augmented Reality Event, Santa Clara, CA, Bruce ha usato l’espressione “to make money of that”, ma sono americani, si sa).
Le esperienze più note, soprattutto per i corporate brand che le hanno promosse, si riferiscono fra gli altri a Toyota, General Electric, Coca Cola.
Altre esperienze, meno vistose ma non meno utili, si rivolgono ai contesti professionali dove l’accesso e la selezione di informazioni critiche devono avvenire in condizioni estreme. Un esempio per tutti: le applicazioni di supporto alla manutenzione.
Sulla scala della complessità il progetto SixthSense, di Pranav Mistry, al MIT Media Lab può essere considerato una pietra angolare, almeno per chi scrive.
Anche da lato dell’offerta, e quindi di chi investe scommettendo sul futuro, non si stanno muovendo solo brillanti “garage-start-up” tipo Total Immersion (recentemente partner di Adobe). Anche grandi player dell’ICT come Qualcomm e Samsung, oltre alla solita Apple, hanno messo sulla AR uno dei loro focus strategici.
Quindi, quali sono gli ambiti in cui la AR potrà dare maggior valore e -soprattutto – a chi?
Uno dei luoghi dove portare riflessioni trasversali e confrontarsi senza pregiudizi “di casta” è la UX Conference organizzata ogni anno a Lugano dalla Sketchin di Luca Mascaro.
Con Stefano Bussolon (che insiste a definirsi ballerino di tango ma è docente di Scienze cognitive all’Università di Trento) abbiamo provato ad identificare una serie di riferimenti generali e ci siamo confrontati – litigando spesso – sugli “strumenti” che le rispettive discipline possono attivare per inquadrare il tema.
Ci siamo dati un vincolo, però: lo sforzo di capire non è rivolto ad affinare tecnicismi volti a sfruttare i meccanismi e le debolezze psicologiche dei potenziali utenti.
E’ ancora Jaron Lanier, almeno per quanto ci riguarda, a dare la linea col suo “You are not a gadget”.
Oltre a discussioni esilaranti sulla definizione del termine “marketing” ed al ricorso ai riferimenti più eterodossi (passerà alla storia il suo “anche le formiche ‘taggano’”) Stefano propone una griglia di riflessione “a monte” delle soluzioni tecnologiche di AR.
I processi decisionali posti in essere dagli esseri umani non si limitano ad acquisire e selezionare informazioni dall’ambiente e pongono in essere anche le cosiddette “azioni epistemiche”. Banalizzando, si tratta di comportamenti volti ad aumentare le informazioni pertinenti al raggiungimento dello scopo (es. una decisione d’acquisto) e a migliorare i processi decisionali futuri.
Poi lui, Stefano intendo, pone la domanda: “la cognizione è ‘intra-cranica’ o anche ‘nel mondo’?” (e tutto ciò è bellissimo)
Si perché, letta nella dimensione del coinvolgimento, la AR apre un mondo di opportunità anche da quel punto di vista che noi markettari chiamiamo “esperienziale”.
Un tentativo allora è quello di mappare alcune realizzazioni di AR in base al prevalere delle motivazioni d’uso (razionale/emozionale) ed al corrispondente livello di “naturalità” (inversamente proporzionale allo “sforzo attivo” richiesto al potenziale utente).
Chi è predisposto all’utilizzo della AR e –soprattutto – per fare che cosa?
Sul tema esiste e si sta affinando un intero set di strumenti. Fra questi il rapporto annuale dell’Osservatorio multicanalità (Nielsen-MI-Connexia). Da tre anni le attitudini degli italiani vengono monitorate in base alla predisposizione verso i canali informativi tradizionali e all’investimento posto in essere per i processi d’acquisto. I raggruppamenti piu’ “evoluti”, almeno nell’uso delle tecnologie per le decisioni d’acquisto sono i cossiddeti “open minded” ed i “reloaded”. Non saranno tutti techno-fan, ma rappresentano già il 40% della popolazione. Un buon 20% poi costituisce il cluster dei “tradizionali coinvolti” (potremmo anche definirli “i prossimi migranti digitali”).
Ecco allora che anche alcune interessanti esperienze italiane trovano una collocazione ed un orizzonte di sviluppo.
Quella indirizzata da Dario De Judicibus, ad esempio, che nel ruolo Fashion Industry Leader di IBM Italia di sostiene sia arrivato il momento di “smetterla di giocare”.
Chi, come Dario associa la competenza tecnica allo sforzo di visione punta a realizzazioni semplici e “naturali”. Il mercato, almeno quello delle aziende che rischiando sono disposte ad “uscire dal coro”, sta apprezzando le proposte ed i prototipi presentati a Segrate, l’estate scorsa.
E ancora: Mauro Rubin, ormai un’autorità in Italia, nonostante l’anagrafe, con la sua Joinpad.net. In occasione dell’ultimo MovieCamp, il 3 novembre a Roma, Mauro ha presentato le realizzazioni compiute per attori del calibro di MTV e Warner Bros. Ma quel che conta, almeno per chi scrive, è che Mauro si muove e presenta la propria iniziativa con onestà intellettuale: “per alcune cose la AR va bene, per altre c’e’ ancora molto da fare e la tecnologia non basta”.
E se lo dice lui …
Crediti:
Leandro Agrò ( www.leeander.com )
Stefano Bussolon (www.bussolon.it)
Dario De Judicibus (www.dejudicibus.it)
Luca Mascaro (www.lucamascaro.info)
Risorse:
Stefano Adami, Stefano Bussolon, Contaminazione di competenze per l’Augmented Reality: aspetti cognitivi e valenze marketing, proceeding UX Conference, Lugano 9.10.2010 (www.slideshare.net/UXconference/contaminazione-di-competenze-per-laugmented-reality-aspetti-cognitivi-e-valenze-marketing)
Bruce Sterling, keynote ad Augmented Reality Event (are 2010), Santa Clara, CA, 2/3.6.2010
Mario Gerosa e Giampiero Moioli, Brera Academy Virtual Lab, Franco Angeli, 2010
Jaron Lanier, You are not a gadget, Knopf NY, 2010 (ed. it. Tu non sei un gadget, Mondadori, 2010)
Kristina Grifantini, Faster Maintenance with Augmented Reality, (www.technologyreview.com/computing/23800)
Pranav Mistry, sixthsense Fluid Interfaces Group, MIT Media Lab (www.pranavmistry.com/projects/sixthsense)
Mauro Rubin, Mixed Reality – quando l’immaginazione diventa reale, MovieCamp, Roma, 3.11.2010
(www.slideshare.net/MovieCamp/mixed-reality-quando-limmaginazione-diventa-reale)