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Osservatorio di Cultura Digitale
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Archive for Novembre, 2009

Francesco Fumelli

Novembre 11, 2009 By: admin2 Category: Senza categoria

francescofumelli

Ha iniziato a spostare le icone da un disco ad un altro nel lontano 1982. E’ docente all’ISIA di Firenze e alla Accademia di Belle Arti (sempre di Firenze) per le tematiche legate all’informatica, alla rete, alla comunicazione digitale ed ai nuovi media, con particolare attenzione (da nomade digitale) a tutto quello che è la connettività mobile.

Lavora come consulente per una azienda che opera come Provider e Web Agency ed è nel CDA di un Internet Provider che opera a livello nazionale.

Realtà Manipolate

Novembre 11, 2009 By: admin2 Category: Articoli

Di Melina Ruberti

Al Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Firenze dal 25 settembre 2009 al 17 gennaio 2010

Il CCCSFondazione Palazzo Strozzi di Firenze propone la mostra Realtà Manipolate Come le immagini ridefiniscono il mondo. Come il sottotitolo della mostra lascia intendere, nella rappresentazione iconografica, fotografica e/o videografica è insita una prospettiva dello sguardo che facilmente può essere in grado di “manipolare” o “alterare” il senso di realtà di ciò che siamo chiamati ad osservare.

Foto e video “realistici” ci accolgono lungo l’intero percorso espositivo traendoci in inganno e cercando di stimolare in noi sentimenti decisamente estranei all’entità ripresa dall’obiettivo o descritta iconograficamente o mediante il ricorso alle arti plastiche.

Così ci troviamo a deprecare la tristezza di una guerra interamente riprodotta in studio o ad osservare con eccessivo distacco scene di orribile vita quotidiana.

Soldati inesistenti, città giocatolo, amori di plastica, album fotografici senza alcuna fotografia (se non la propria descrizione numerica) ci affascinano e richiedono la nostra precipitosa attenzione verso le didascalie, unici strumenti per svelare l’arcana origine delle rappresentazioni e dei sentimenti deviati in cui inducono lo spettatore.

La mostra presenta le opere di 23 artisti internazionali che lavorano con ogni mezzo: dalla fotografia tradizionale, alla ripresa video, all’installazione plastica… ma si affaccia quale nume tutelare di una ricerca sempre più “virtualizzata” dell’immagine, proprio quella della “rappresentazione digitale” che nelle sue varie forme domina la scena della comunicazione contemporanea.

Tra le opere presentate, tutte di indubbio fascino e qualità espressiva, mi hanno particolarmente incuriosita quelle realizzate da:

 

faltenpieghe

Christiane Feser

Falten 10 (pieghe) mostra una superficie monocroma fatta di fogli bianchi accartocciati che sembrano estendersi all’infinito. La qualità dell’immagine è determinata principalmente da luce ombra e carta , il gioco alterno tra la realtà e la sua produzione riflette l’uso di tecniche produttive fondate sulla elaborazione dell’immagine digitale che rimane però quietamente impalpabile alla vista.

agendanumeri

Cody Trepte

L’opera Photo Album 2006/2007 arriva a una soluzione di estrema riduzione formale: settantacinque fascicoli di fogli A4 rilegati a mano e disposti in fila su uno scaffale. In ogni pagina dei fascicoli si dispiegano sequenze in codice binario, lunghe serie numeriche composte da 1 e 0 (proprio i due numeri con i quali il computer comunica qualsiasi realtà e qualsiasi fantasia).

L’artista mette in evidenza ciò che normalmente rimane celato: la natura estremamente astratta e lineare delle immagini digitali. Rappresenta in sintesi il codice genetico dell’immagine prima dell’elaborazione digitale che ne proietta la rappresentazione sul monitor. Ogni libro è una possibile foto descritta per l’elaboratore in codice binario, e pertanto totalmente incomprensibile nella sua intima essenza digitale.

paoloventura

Paolo Ventura

In Iraq, 2008 rappresenta una sorte di visione sintetica di tutte le immagini della guerra legate alla memoria collettiva, Non riproducendo esattamente le fotografie scattate sul teatro di guerra, ma ricreandole in studio come icone di una guerra possibile che però, nutrendosi delle inquietudini reali, viene descritta con immagini che scaturiscono dalla sua fantasia dando luogo a visioni ad alto carattere di codificazione formale da essere percepite non solo come plausibili, ma addirittura reali dall’occhio dell’osservatore.

StreamFest ’09: cultura ecodigitale in Salento

Novembre 11, 2009 By: admin2 Category: Articoli

stream

Di Giada Totaro

La terza edizione di StreamFest, festival internazionale dedicato alle arti elettroniche e digitali, si è svolta dall’1 al 21 agosto 2009 nei principali comuni del Salento, quali Lecce, Brindisi, Otranto, Galatina, Santa Cesarea Terme e Gallipoli.

Strutturato in modalità itinerante, il festival si è sviluppato attraverso diversi momenti e modalità d’incontro, conciliando informazione, partecipazione e spettacolo, intorno al tema dell’eco-entertainment e dell’ecosostenibilità nelle arti elettroniche e digitali.

La manifestazione è stata pensata per rispondere alle esigenze della variegata popolazione, sia locale che turistica, delle affollate estati salentine: momenti d’informazione come il meeting Politiche energetiche: contesti globali ed azioni locali e la Rassegna Cinemaambiente, sono stati alternati a serate musicali con ospiti di rilievo della scena contemporanea elettronica come Leeroy Thornhill, Congo Rock, Cassy e Reboot, durante le quali sono state presentate diverse installazioni, tra cui Blank del gruppo D3D Naba.

In particolare, fulcro delle tematiche del festival è stata la mostra collettiva Wet and dry_ relazioni tra arte e natura nel contemporaneo tecnologico, ospitata dal Palazzo della Cultura Zeffirino Rizzelli di Galatina dall’1 al 12 agosto, curata da Giada Totaro in collaborazione con A&A Ars and Gallery (Galatina-LE), realizzata grazie alla partecipazione di Xtend3dLab di Milano, al Dipartimento di Media e Arti multimediali e Master D3D (Naba-Milano) e gli studenti dell’Accademia di Brera (Milano).

Wet and dry: in Salento una mostra come esperienza rituale di riconciliazione tra uomo, natura e tecnologia.

Immaginiamo una condizione alla Fallout, videogioco ambientato nel 2277, 200 anni dopo un disastro nucleare che ha trasformato la terra in una distesa arida ed irradiata di rovine naturali e tecnologiche insieme, solo che, al posto dei bunker sotterranei, abbiamo le antiche rovine della Grecia salentina e, invece della società Vault-Tec, abbiamo artisti locali, nazionali ed internazionali, che come dei primitivi elettronici, avviano la

ri-costruzione di una nuova coscienza ecologica, cioé un oikos,“casa” e logos, “discorso”, che dal locale estende il suo immaginario verso il globale.

Wet and dry: un paesaggio primordiale ed evoluto insieme, in cui uomo e natura, nella riscoperta del reciproco valore autentico, ritrovano l’equilibrio perduto, attraverso un uso consapevole ed intelligente della tecnologia.

All’esterno di questo scenario, l’opera di Sandro Marasco, Quanto?

Appesa al cornicione della terrazza del palazzo, composta dalla scritta “Quanto tempo resta prima di morire”, realizzata in legno carta e luce wood, l’opera, da frammento della condizione globale di costante terrore indotta dall’informazione mass mediatica, diventa constatazione e riscoperta interiore dell’unica risposta umana possibile: dipende tutto dalla nostra insostituibile soggettività.

Varcato il portone del palazzo, ancora un momento di sospensione, all’origine della relazione dell’uomo con la natura, con l’installazione sonora di Mario Schiavone

L’ àpeiron e la reverie_ Ho dato voce alla luce del nero. Quattro steli monolitiche, realizzate in plexiglass riflettente nero, narrano ed invitano al riconoscimento del sé autentico nella scoperta dello spettacolo della vita.

Da questo momento in poi il visitatore attraversa un campo di germogli wet and dry, spunti dai quali è possibile iniziare una riflessione: la sensazione è che per ristabilire un’armonia sociale e ambientale nell’odierno tecnologico, l’uomo debba recuperare il valore archetipico e rituale della vita. 

Il recupero del tatto e della manualità è la spinta di artisti come Beatrice Menniti e Burhan Sabbah Alhilu, che, riciclando materiale hardware di computer manomessi, realizzano Open hardware, un’interfaccia interattiva personalizzata e multifunzionale, programmata con software open source e free ware.

Fabio Pelagalli, in collaborazione con Tinker.it!, presenta Water Piano, un pianoforte realizzato in legno, hardware riciclato e Arduino, programmato in Linux e Puredata, la cui tastiera è composta da sei tasti, come sei piccole bacinelle, riempiti d’acqua.

Water Piano è uno strumento che sfrutta la possibilità del nostro corpo di condurre energia attraverso il contatto con l’acqua. Grazie ad un circuito di sei sensori capacitivi, immergendo le dita nell’acqua dei tasti, l’impulso elettrico è trasformato in note musicali.

Water Piano è un modo originale che ricorda quanto sia preziosa l’acqua, e quanto la nostra vita sia legata a questo elemento naturale. Un chiaro invito a riflettere sulla libera fruibilità dell’acqua, sulle attuali politiche che vorrebbero privatizzarla, sullo sviluppo di pratiche che ne consentano il riciclo.

ElectroSmogMusic//DestroyingNonAwareness//DNA//, l’installazione interattiva di Lucrezia Tenerelli e Mauro Pace, realizzata con alcuni sensori collegati ad Arduino, è un traduttore acustico dell’elettrosmog  prodotto dal flusso delle onde elettromagnetiche emesse dai cellulari. L’intento è di rendere i fruitori maggiormente consapevoli dell’inquinamento elettromagnetico che attraversa quotidianamente il corpo umano causando fratture nella catena del DNA, disturbi cognitivi, mutazioni della struttura molecolare delle cellule, inibizione delle difese immunitarie. Il visitatore avvicina il proprio cellulare ai sensori: all’aumentare del livello di elettrosmog, il movimento e il suono di una sinusoide, metafora della struttura del DNA, realizzata con una cordicella messa in moto da un motorino, mutano aspetto, qualità e colore.

Alessandro Bono ed Emiliano Audisio presentano Environmental Data Sounds.

Un database contenente dati d’inquinamento ambientale è sottoposto ad una scansione temporale tematica dando vita ad un processo di sonificazione. L’utente può navigare l’installazione attraverso un’interfaccia realizzata con Arduino e due hard disk riciclati e trasformati nella loro originaria funzionalità: “scretchando” i dischi interni degli hard disk con le mani, è possibile avviare una lettura sonora e grafica di dati statistici confrontati con i valori limite dettati dal protocollo di Kyoto nel 1997 e verificare in tempo reale la critica situazione di equilibrio ambientale del nostro pianeta.

Senza titolo di Fabrizio Fontana, Nduma nnu ciru di puntoG e Tafkav_the artist formely known as Vanda di Francesco Monico, riattualizzano il valore del rituale, come pratica di conoscenza condivisibile tra uomo natura scienza e tecnologia.

Senza titolo è una croce formata da scatole di farmaci e contornata nel perimetro da erba sintetica: l’opera, realizzata per l’occasione, in qualche modo vuole simboleggiare un Dio “sintetico” nel rapporto tra l’umido biologico e il secco tecnologico, tra il naturale e il sintetico.

Nduma nnu ciru di puntoG, è un synth audio composto da un candeliere votivo antico ed un sistema di sensori fotosensibili posto al di sopra della luce delle candele.

L’opera realizzata con software e hardware opensource è ispirata al valore di necessaria mediazione del ruolo della donna [Luisa Muraro] nelle arti tecnologiche.

Tafkav_the artist formely known as Vanda di Francesco Monico, esplora le tematiche della fine dell’antropocentrismo, attuando un approccio pragmatico alla comunicazione uomo-alterità. Le variazioni galvanometriche della pianta sono raccolte da uno psicogalvanometro collegato ad Arduino e, inviate nel computer, sono tradotte in sonorità musicali. L’opera propone una metodologia dialogica tra arte, scienza, tecnologia e natura, definita technoetica, dall’unione tra techné e noetikos:

« La definizione estetica del paradigma tecnologico contemporaneo sarà tech-noetica, cioè una fusione di che cosa conosciamo e possiamo ancora indagare sulla coscienza (noetikos) con ciò che possiamo fare e finalmente realizzeremo attraverso la tecnologia». [Roy Ascott]

Ennio Bertrand in questo contesto fa da guida con l’installazione bio-attiva La scatola di Giotto_Fiori di luce, basata sul principio di reazione elettrochimica del contatto tra la componente acida del succo di limone con una data quantità di rame e zinco. Composta da 12 vaschette con due fiori LED ciascuna, poste su una zolla di erba, come germinatoi per le piante di uso comune, le composizioni diventano piccoli incubatoi per far germinare energia elettrica. L’installazione appartiene alla sua poetica di ricerca di fonti alternative e rinnovabili di energia elettrica per i suoi lavori di luce.

«I Fiori di Luce producono da sé l’energia elettrica per il loro funzionamento anche se occorre sottolineare che il bilancio energetico tra energia prodotta e quella impiegata: per la coltivazione dei limoni, la preparazione della lastre dei metalli, la produzione del contenitore in plastica, della parte elettronica è ampiamente sfavorevole. E’ stata spesa molta, molta più energia di quanta se ne ricavi dal succo dei limoni. È però un atto con valore poetico che propone una riflessione per cercare di ristabilire un equilibrio tra credito e debito nei rapporti con il pianeta che abbiamo in prestito d’uso». [Ennio Bertrand]

E se con Raffaele Fiorella in Dream paradossalmente ci risvegliamo nella corporeità della nostre fantasie, è in Life Bag di Adalgisa Romano che ritroviamo il desiderio della bellezza, dell’amore e della dolcezza delle forme della vita che si rigenerano. 

Alla mostra hanno partecipato anche: Composizione 12 di Annamaria Craparotta (in collaborazione con gli studenti dell’Accademia di Brera, A. Cherfi, Casati e Missaglia), Carolina Travi e Barbara Martinazzi D. Botter con Kara Doccia, Ulia Oberg e Farras Oran con Scale of pollution, Franco G. Livera, Gianmaria Giannetti, Lea Caputo, Semira Forte, Illuminata Vanessa Lo Presti, Elena Rossella Lana.

The God of Small Things

Novembre 10, 2009 By: admin2 Category: Comunicazioni

Prosegue l’attività espositiva di Casa Masaccio centro per l’Arte Contemporanea a San Giovanni Valdarno

 

L’esposizione presenta i lavori di alcuni giovani artisti dell’Asia Orientale e Sud-Orientale – Uematsu Takuma, Mitzunori Kimura, Mizuno Katsunori, il gruppo di lavoro Ine wo Ueru hito, Maitree Siriboon, Jirayu Rengjaras, Liang Yuanwei, con l’aggiunta di un’artista toscana Leonora Bisagno – le cui opere, pur esprimendo la specifica sensibilità estetica di ognuno, hanno in comune il prescindere da effetti spettacolari come quelli che in tempi recenti caratterizzano gran parte dell’Arte, ed allo stesso tempo, sono il segno di qualcosa di sottile e sostanziale del mondo in cui vivono e anche noi viviamo. La mostra è curata da Pier Luigi Tazzi che da alcuni anni vive e lavora tra l’Italia e l’Oriente, dove è stato recentemente nominato curatore della nuova Aichi Triennale che si terrà nel 2010 a Nagoya, in Giappone.

Il titolo della mostra è la traduzione italiana di The God of Small Things, il noto, ed unico, romanzo della scrittrice indiana Arundhati Roy, con i cui contenuti l’esposizione ha un rapporto solo indiretto. Nel libro la Roy scrive in Inglese, come gli artisti in mostra usano modelli estetici ed espressivi derivati dal Modello Occidentale che domina a livello planetario le pratiche artistiche attuali; la storia del libro verte su personaggi che subiscono il contrasto fra tradizione e colonizzazione, così questi artisti manifestano la loro separatezza individuale nei confronti sia del Grande Mondo che dei loro reciproci contesti di appartenenza attraversati e feriti da modernità e tradizione; come la Roy che da oltre vent’anni ha abbandonato la narrativa per farsi attivista politica nei movimenti anti-globalizzazione, gli artisti in mostra perseguono un loro percorso operativo che li stacca dai trend artistici correnti e li isola in una loro ricerca personale, isolamento che riconoscono come il nutrimento essenziale e il senso della loro stessa esistenza nel mondo.

Giapponesi sono:

Uematsu Takuma (nato nel 1977, vive ad Osaka), lavora prevalentemente con la scultura e il disegno, combinati spesso in complesse installazioni;

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Mitsunori Kimura (nato nel 1983, vive a Nagoya) scultore di opere di medie e piccole dimensioni, accompagnate in mostra da disegni;

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Mizuno Katsunori(nato nel 1982) utilizza prevalentemente film e video; Ine wo Ueru hito, gruppo di lavoro formatosi nel 2007, composto da Inagaki Tomoko (nata a Tokyo nel 1975, vive a Berlino) e Uematsu Takuma.

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Dalla Thailandia, e più precisamente dall’Isan, Maitree Siriboon (nato nel 1983, vive a Bangkok), pittore di formazione, lavora da qualche anno anche con la fotografia e i video.

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Jirayu Rengjaras, pittore autodidatta (nato nel 1980 nella provincia di Kalasin, dove recentemente è tornato a vivere).

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Cinese è l’artista Liang Yuanwei (nata nel 1977 a Xi’an) che privilegia la fotografia, la pittura e le installazioni.

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Infine l’italiana Leonora Bisagno (nata nel 1977 a Zurigo, vive nel Chianti), che usa vari media fra cui video e disegno.

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Come scrive in catalogo Tazzi, “le posizioni marginali e minoritarie, che contraddistinguono ciascuno di questi artisti, il cui isolamento, costitutivo e determinato nella sua essenza, finisce con il produrre visioni particolari, germinali, di estrema suggestione, in un universo come quello dell’arte attuale, dove dappertutto l’omogeneizzazione ai nuovi canoni degli stili, della moda e del mercato ha spesso come esito works that look like art “, ovvero, opere che somigliano all’arte.

ORARI MOSTRA: feriali 16/19 festivi 10/12-16/19, lunedì chiuso
INGRESSO: gratuito
Casa Masaccio Centro per l’Arte Contemporanea Corso Italia, 83 52027 San Giovanni Valdarno Tel. 055 91.26.283

casamasacciosgv@val.it

www.casamasaccio.it

Istituto Formazione Franchi e la sicurezza sul Web

Novembre 10, 2009 By: admin2 Category: Articoli

lucche

Di Giulio Luzzi 

Parte la campagna per l’anno scolastico sui temi dell ‘opportunità e della sicurezza sul Web in 20 scuole medie ed elementari della Toscana

 Il web tra enormi opportunità e piccole e grandi insidie, come tutelarsi da quest’ultime?

La sicurezza sul web, soprattutto per ciò che riguarda l’uso del web da parte di minori, sta diventando un argomento di attualità, da un lato perché sempre più spesso la stampa si deve occupare di fatti di cronaca che vedono protagonisti minorenni, “adescati nella rete”, vittime di soprusi di vario tipo, tra cui ignobili reati di pedofilia, dall’altro perché l’uso di internet da parte di minori è enormemente aumentato e sempre più i genitori sono costretti ad occuparsi del problema.

Tanto per inquadrare il problema ecco alcuni numeri che si possono ricavare dai vari osservatori dedicati al problema.

La paura dei pedofili online, purtroppo, non è infondata. Secondo i dati della Polizia delle Comunicazioni, dal 1997 ad oggi si contano 238 arresti, 4.465 persone sono state denunciate e sono state effettuate 3.978 perquisizioni. Inoltre, la Polizia italiana tiene costantemente monitorati 293.204 siti, ha contribuito alla chiusura di 177 siti in Italia e ha segnalato 10.977 siti all’estero.

Di fronte a questi numeri si potrebbe pensare che ogni famiglia si sia opportunamente attrezzata per fronteggiare il problema senza ricorrere a soluzioni drastiche tipo «da oggi niente computer e niente internet», che in ultima istanza finirebbe per penalizzare in modo certo ancora di più il proprio figlio perché avrebbe sicuramente meno opportunità dei propri coetanei che possono invece usare intelligentemente la rete (ricordate il tanto discusso fenomeno del digital divide, il divario digitale che porta a possibili forme di emarginazione sociale?).

Ma la realtà dice che solo un genitore su 4 si occupa di seguire i figli minori su internet. Come si spiega allora questo curioso fenomeno?

I motivi sono di varia natura e senza addentrarci in analisi sociologiche potremmo evidenziare tre cause principali. La prima è la scarsa cultura informatica e della rete in particolare da parte di buona parte de genitori, che non consente loro di percepire la reale gravità del problema. La seconda deriva dal fatto che come tutti i problemi si pensa con riguarderanno i figli di altri ma mai i propri. Infine perché anche quei genitori più familiari con l’informatica, che hanno quindi le capacità di comprendere il problema, sono vittime di un fenomeno che coinvolge molti media e cioè che i media per loro natura fanno sembrare il problema molto lontano, siamo ormai abituati a vedere ogni sera, mentre siano a cena scene cruente di guerra, incidenti stradali, morti per fame o per mala sanità… e la cosa non ci turba più, tant’è che riusciamo a finire il pranzo; cosa che se vivessimo LIVE quelle realtà anche per il più duro di cuore sarebbe difficile trattenere le lacrime.

Quindi la rete stessa insieme alla televisione fa sì che il problema sembri lontano, conseguentemente la cosa non ci tange e abbassiamo la guardia.

Allora che fare ?

Come per ogni altra cosa della vita, occorre far prevaler il buon senso; a poco o niente servono soluzioni. Come genitore, che sta vivendo il problema avendo una figlia adolescente, mi sono detto;

internet è un opportunità che non voglio negare a mia figlia che crescerà nella società “della cittadinanza digitale”, ma al tempo stesso devo tutelarla. Allora come l’ho accompagnata per anni a scuola indicandole quali pericoli correva attraversando la strada piuttosto che accettando cose da sconosciuti, l’ho voluta accompagnare nella navigazione su internet facendole notare quali insidie si corrono.

Contemporaneamente alla mia presenza con lei durante l’utilizzo del PC mi sono formato io stesso ed ho trovato ad esempio che ci sono alcuni programmi attraverso i quali i genitori che non possono controllare i figli essendo presenti al momento dell’utilizzo di internet, possono comunque mantere la situazione sotto delicato controllo per esempio attraverso il restringimento dell’orario di utilizzo e ponendo limiti alla navigazione di certe tipologie di siti.

Internet è una grande opportunità che fortunatamente i nostri figlio hanno, a differenza di molti altri bambini del mondo, quindi non Neghiamogliela ma Accompagnamoli in questo cammino di crescita.

E’ proprio questa l’iniziativa che, mediante i propri seminari, Istituto Formazione Franchi propone periodicamente in molti Istituti Statali della Toscana. Per saperne di più: redazione@mymedia.it

Biennale di Venezia

Novembre 09, 2009 By: admin2 Category: Articoli

bienn

Di Silvana Vassallo

Percorsi tra film e video nei “mondi” di Daniel Birnbaum

Fare Mondi, titolo della 53° Edizione della Biennale di Arti visive di Venezia, racchiude il senso del progetto espositivo di Daniel Birnbaum, il più giovane direttore che la Biennale abbia mai avuto, ma che può vantare una solida esperienza sia come studioso (è Rettore della Staedelschule di Francoforte sul Meno), sia come organizzatore di eventi artistici a livello internazionale. Un tema importante di Fare mondi riguarda i processi di globalizzazione in atto. Nella mostra vi è una nutrita presenza di artisti provenienti da paesi diversi, che attraverso le loro opere mettono in scena quella dialettica tra luoghi di appartenenza e forze globalizzanti che è un’aspetto centrale dell’esperienza contemporanea, e che si traduce in una pluralità di scambi, scontri e travasi da cui possono emergere collusioni produttive. Per quanto riguarda il modo di intendere l’arte, in innumerevoli interviste e nei saggi introduttivi contenuti nel catalogo della mostra Birnbaum  ha sottolineato come “ un’opera d’arte è più di un oggetto, più di una merce. Rappresenta una visione del mondo, e, se presa seriamente, deve essere vista come un modo di costruire un mondo”. Fortemente interessato ai rapporti tra arte filosofia e società Birnbaum sostiene che in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo, l’arte, oltre che registrare i frammenti di ciò che sta crollando, può aiutarci nella ricerca di nuovi inizi. La sua Biennale in effetti non rincorre le grandi star del momento e non insegue le tendenze del mercato, ma si concentra su processualità artistiche emergenti, produttrici di “pensieri” e di “modelli” che offrono delle alternative al presente o che evidenziano una tensione verso il futuro.

Punti di riferimento importanti sono alcuni esponenti più o meno noti dei movimenti neoavanguardistici degli anni 60 – come Michelangelo Pistoletto, Öyvind Fahlström,  Yoko Ono (Leone d’oro alla carriera), Gordon Matta-Clark, Yona Friedman, André Cadere – il cui vocabolario visivo e le cui strategie culturali possono ancora fornire stimoli preziosi  alle nuove generazioni di artisti. Il dialogo che si intreccia tra artisti appartenenti a generazioni diverse privilegia alcuni filoni della sperimentazione artistica, quali il minimalismo, l’arte concettuale e un certo tipo di arte impegnata il cui investimento nel sociale  si traduce soprattutto nella proposta “modelli alternativi” per poter condividere spazi ed esperienze in maniera non convenzionale. In questa prospettiva, un importante fil rouge della mostra è rappresentato dal rapporto tra arte e architettura, che pone in evidenza il tema della costruzione di ambienti come luoghi di condivisione di esperienze al contempo mentali, relazionali e funzionali. Le due imponenti installazioni dell’argentino Tomas Saraceno della brasiliana Lygia Pape situate rispettivamente all’ingresso del Palazzo delle Esposizioni e  all’entrata degli Arsenali, marcano la rilevanza di questo tema. L’installazione di Saraceno, Galaxies forming along filaments, like droplets along the strands of a spider’s web,  si presenta come un complesso intreccio di corde elastiche che ridisegna la geometria spaziale del grande salone d’ingresso del Palazzo delle Esposizioni, evocando al contempo, come suggerito dal titolo, galassie in formazione oppure un’enorme tela di ragno; l’opera di Lygia Pape (l’artista, scomparsa di recente, è stata omaggiata con una menzione speciale, “Rifare Mondi”), intitolata Ttéia (2002), è composta da sottili fili d’oro tesi fra il pavimento e il soffitto di uno spazio semibuio, i cui contorni sembrano smaterializzarsi di fronte a quella che appare come una scultura formata da fasci di luce. Anche la realizzazione di spazi funzionali è stata affidata alla cura di artisti: il bookshoop è stato realizzato dall’artista argentino Rirkrit Tiravanija, il bar dal tedesco Tobias Reheberger (Leone d’oro come migliore artista), e lo spazio educational per i bambini dall’italiano Massimo Bartolini. Sono tuttavia del tutto assenti dalla mostra opere che propogono esperienze immersive e interattive in spazi virtuali, e ciò taglia fuori una modalità contemporanea di “fare mondi” di stringente attualità, che avrebbe consentito di porre l’accento su nuove forme relazionali mutuate dalla tecnologia. Una novità da segnalare è la presenza di un Padiglione virtuale, ideato dall’artista guru del web Miltos Manetas assieme al curatore Jan Aman (http://biennale.net/), che si configura come un progetto in progress in cui per tutta la durata della mostra verranno presentati  lavori di artisti provenienti da diversi paesi e saranno attivati forum di discussione.

Un’installazione particolarmente interessante per il modo in cui vengono utilizzate le tecnologie video in relazione allo spazio architettonico è Human being, di Pascale Marthine Tayou; l’artista, originaria del Camerun, ha costruito all’interno delle Corderie dell’Arsenale una sorta di villaggio africano, con capanne sulle cui pareti sono proiettati dei video che mostrano scene di vita quotidiana da tutto il mondo: Giappone, Taiwan, Camerun, Italia. I video si trasformano in tal modo in  una sorta di “finestre”, che collegano virtualmente spazi geograficamente distanti, stabilendo connessioni tra culture che sono percepite come radicalmente diverse.

Fare Mondi è una vasta mostra non divisa in sezioni, che articola temi diversi attraverso un gioco di rimandi disseminato tra le oltre 90 opere presenti, con una rappresentanza equilibrata di tutti i linguaggi: installazioni, video e film, scultura, performance, pittura e disegno. Si è voluto dare spazio a varie forme di espressività artistica e questo è sicuramente un aspetto positivo.

Tra i video e le videoinstallazioni disseminate nella mostra è possibile individuare delle ricorrenze tematiche che evidenziano le scelte curatoriali di Birnbaum, orientate verso un approccio concettuale volto a riflettere sul significato della processualità artistica e un forte interesse per i legami tra  video e cinema. Molti dei video e delle video-installazioni consistono in documentazioni di performance. Reading Dante II, dell’artista americana Joan Jonas – una figura pionieristica nell’ambito della performance e del video sperimentale – documenta un work in progress dell’artista basato su letture di brani della Divina Commedia eseguite da attori professionisti, ma anche da amici, e realizzate in località diverse (Canada, New York, Città del Messico e Italia).  Elise Valentine Wilhelmine, della giovane artista israeliana Keren Cytter, è un’installazione che ruota attorno alla ripresa di una performance teatrale ispirata al film di Cassavetes La sera della prima, realizzata davanti a una platea di spettatori; l’allestimento riproduce la situazione in cui il video è stato girato, con gradinate per il pubblico che assiste allo spettacolo, giocando sulla mescolanza tra pubblico virtuale presente nel video e quello reale rappresentato dai visitatori della mostra. Una mise en abyme del ruolo spettatoriale è anche uno degli elementi che contraddistingue l’installazione dell’artista tedesca Ulla Von Brandeburg, il cui film in bianco e nero Sing Spiel, (16 mm trasferito in video) girato nella villa Savoye di Le Corbusier, gioca sul contrasto tra quella che nelle intenzioni di Le Corbusier doveva essere “una macchina ideale da abitare”  e le crepe, le incrinature umane dei personaggi che lo abitano. Il film si conclude con uno spettacolo allestito nel giardino della villa sotto una tenda, dove i protagonisti diventano spettatori del loro stesso disagio; l’allestimento all’Arsenale evoca questa scena finale, in quanto il film è proiettato in una struttura fatta di tende colorate, contenente le stesse sedie presenti nel film.

Altri due lavori documentano performance meno narrative e teatrali: Tree Dance (1971, film 16mm b/n trasferito in video) si basa sulla registrazione di una  performance “storica”  di Gordon Matta-Clark ispirata ai rituali di fertilità primaverile che l’artista eseguì con una rete di corde e scale installate tra i rami di un albero; mentre l’installazione a doppio schermo Proteo dei due giovani artisti barcellonesi Bestuè/Vives mostra le trasmutazioni di un singolo attore da uomo a cavallo a motocicletta attraverso un veloce cambio d’abiti, un omaggio al famoso attore-trasformista di inizio secolo Leopoldo Fregoli ma anche un ironico commento sulle tematiche dell’ibrido post-human.

Per quanto riguarda le riflessioni sulla prassi artistica, paradigmatico è il film di John Baldessari  Six Colorful Inside Jobs (film 16 mm trasferito in video, 1977), in cui un giovane studente allievo dell’artista viene ripreso per sei giorni mentre dipinge una stanza, ogni giorno di un colore diverso, “riposandosi” la domenica. Concettuale e minimalista, l’opera di Baldessari, a cui quest’anno è stato assegnato il Leone d’Oro alla carriera, rappresenta una riflessione ironica sul’arte e il ruolo dell’artista. Il tema viene ripreso, ma utilizzando un registro totalmente diverso, nel bel video della giovane artista francese Dominique Gonzalez-Foerster De Novo, incentrato sul racconto autobiografico delle ansie creative e delle aspettative  legate al fatto di essere stata invitata per la quinta volta a presentare un lavoro alla Biennale, sullo sfondo di un’affascinante Venezia vissuta come  “luogo del delitto” dove l’assassino ritorna ossessivamente.  L’installazione dell’artista algerino Philippe Parreno, El sueño de una cosa (2001), propone un’articolata riflessione sui temi della paternità e delle riletture artistiche. Il lavoro trae spunto dai White Painting (1951) di  Robert Rauschenberg, una serie di monocromi bianchi considerati da Rauschenberg “un’ emergenza” e definiti da John Cage, che si era ispirato ad essi per comporre la famosa partitura  4 minuti e 33 secondi di silenzio (1952), “aeroporti per luce, tenebre e particelle”. Partendo da queste definizioni, Parreno costruisce un’installazione in cui riproduce una versione dei  monocromi di Rauschenberg, che ad intervalli di 4 minuti e 33 secondi si trasformano in “schermi” su cui viene proiettato un suo film. Girato su un’isola norvegese al Polo Nord, il film, della durata di un minuto, mostra immagini di paesaggi nordici dalla qualità onirica, immersi nella strana luce bianca del sole di mezzanotte,  con un’accompagnamento musicale che riprende l’inizio di Desert (1954) di Edgard Varese. Molteplici sono le suggestioni derivanti da questo lavoro sofisticato e minimalista, che citando determinati artisti ed evocando “deserti”, “paesaggi senza tempo”, “pause di silenzio” sembra voler alludere alla necessità, in alcuni momenti, di  effettuare “azzeramenti”di vario genere, per far affiorare nuove configurazioni di senso.

Se nell’installazione di Parreno il quadro si trasforma in schermo, in altri lavori proiettori e pellicole assumono valenze scultoree, svelando i meccanismi di riproduzione dell’immagine. In Coro Spezzato: The Future lasts one day dell’artista italiana Rosa Barba, cinque proiettori 16 mm, opportunamente modificati e sincronizzati,  riproducono sulle pareti circostanti frammenti di frasi che compongono un testo poetico su un nuovo futuro collettivo, realizzando una sorta di performance macchinica a più voci, memore della tradizione policorale veneziana. Il film dell’inglese Simon Starling Wilhelm Noack oHG documenta l’attività dell’omonima azienda metallurgica berlinese,  ed è attivato da un sofisticato meccanismo di proiezione che è parte integrante dell’opera. Si tratta di una grande scultura cinetica che ricorda una scala a chiocciola, costruita con strutture di metallo fornite dall’azienda berlinese  attraverso le quali scorre la pellicola in tutta la sua interezza: l’installazione evoca  in tal modo tutta una serie di associazioni tra la “macchina filmica” e i macchinari di precisione prodotti dall’azienda.

Una delle rare presenze di imponente installazione video di pura suggestione visiva è rappresentata da Orbite Rosse, di Grazia Toderi, consistente in  una doppia proiezione di grande impatto, in cui vedute aeree notturne di metropoli, parzialmente racchiuse in grandi ovali, si trasfigurano in paesaggi siderali, in configurazioni luminose e pulsanti che, come suggerisce il titolo,  alludono allo stesso tempo alla percezione attraverso l’occhio umano e all’immagine di una traiettoria descritta da un astro, stabilendo un legame tra  spettacolo cosmico e visioni terrene. La rappresentazione di “spazi trasfigurati” caratterizza anche l’installazione a doppio schermo dell’artista spagnola Sara Ramo, che partendo da un luogo familiare, il quartiere di Madrid dove  ha trascorso la sua infanzia, lo strasforma in uno spazio sospeso e inquietante, attraverso inquadrature claustofobiche di vicoli vuoti dove avvengono dei piccoli accadimenti apparentemente magici: una palla che rotola, una scatola di cartone che si muove, dei fiocchi di polistirolo che cadono. L’intera città di Venezia è coinvolta in un complesso e ironico progetto dell’artista brasiliano Hector Zamora, Sciame di dirigibili. L’artista  si è inventato un evento immaginario, una festa di dirigibili sopra Venezia, di cui ha lasciato “tracce storiche e testimoniali” di vario genere: una campagna pubblicitaria, cartoline, disegni dell’evento realizzate da artisti di strada, uno Zeppelin in grandezza naturale incagliato tra gli edifici dell’Arsenale e un video che mostra uno sciame di dirigibili che affollano il cielo della città. Operando negli interstizi tra realtà e finzione Zamora pone interrogativi di grande attualità sulla costruzione mediale degli eventi.

Non mancano i video d’animazione, rappresentati dai lavori di due giovani artiste che costruiscono mondi e storie di natura  molto diversa. Palestinese cresciuta tra l’America e Israele, Jumana Emil Abbud, nell’animazione The Diver (2004) impersona il suo spaesamento nella figura di un eroe che intraprende un viaggio avventuroso alla ricerca del “Cuore”, inteso come luogo di origine. La storia si ispira a ricordi di infanzia e a favole come Alice nel paese delle meraviglie, Il mago di Oz e Il piccolo Principe. Fantasie più dark vengono inscenate nei tre film Experimentet, dell’artista svedese Nathalie Djurberg, che utilizza personaggi di plastilina modellati a mano, dall’aspetto spesso inquietante e mostruoso, per narrare storie intrise di violenze, soprusi, perversioni sessuali, che ci mettono in contatto con gli aspetti più istintuali e meno controllabili della nostra psiche. I film sono collocati tra sculture altrettanto inquietanti, costituite da giganteschi fiori carnosi, arbusti dai colori violenti ed altre strane creature ibride che proiettano lo spettatore in un’atmosfera da incubo surreale. Con questo lavoro dal notevole impatto visionario ed emotivamente forte Nathalie Djurberg  si è aggiudicata il Leone d’Argento come Giovane Artista  con la seguente motivazione: “per le sue scenografie fiabesche, per le sue fantasie e per la sua ‘black pedagogy’, tenute tutte insieme in una gamma unica di mezzi espressivi”.

In conclusione la  mostra di Birnbaum contiene una significativa presenza di video, che documentano varie anime della videoarte: nei suoi rapporti con il cinema, la letteratura, le arti visive, la performane e il teatro. Tuttavia, volendo fare qualche appunto, poco spazio è stato riservato ad un tipo di sperimentazione centrata sulla specificità linguistiche dell’immagine elettronica. Non a caso, tra le “paternità artistiche” che Birnbaum ha individuato come figure chiave per un dialogo con il presente, mancano riferimenti a personaggi come Nam June Paik, Wolf Wostell, Gary Hill, Bill Viola, tanto per fare dei nomi, che hanno fornito contributi fondamentali allo sviluppo del linguaggio video sia sul fronte  della sperimentazione formale sia sul fronte della critica al sistema dei media.

Dove le mucche indossano gli orecchini

Novembre 09, 2009 By: admin2 Category: Articoli

mucca

Di Fabrizio Pecori 

Il  Tibet è un paese strano, ricco di tradizioni e culti millenari, praticamente incastonato in costituende megalopoli cinesi dal gusto inappropriato ed eccessivo di una multiluminosa e confusionaria Las Vegas.

Attraversandolo noti – con curiosità – di riuscire a non perdere mai il segnale cellulare ed incontri monaci, pellegrini e nomadi sempre attaccati ai propri telefonini non di ultima generazione, ma perfettamente in grado di offrire accurato servizio anche sulla vetta dei passi che superano i 5000 m. come il Campo Base dell’Everest.

Se la cultura “mobile” si è profondamente radicata, non altrettanto possiamo dire degli aspetti legati al social network.

In Filippine già nel Gennaio 2001 (vedi l’editoriale di My Media N. 01) il presidente Joseph Estrada venne deposto a seguito di una mobilitazione pacifica coordinata attraverso l’oculato invio di messaggi SMS, mentre in una nazione che sta pagando il risultato di un obbligato riconoscimento della propria sudditanza ad un regime totalitario con il soggiorno forzato del proprio capo spirituale – il Dalai Lama – in India, nei posti pubblici dove si può consultare Internet sono dislocati cartelli bilingue (cinese ed inglese) di questo tenore: «Religious, political and pornographic content are not allowed on cafè computer», che suggeriscono associazioni di idee piuttosto forzate.

La mancata traduzione del sibillino messaggio in lingua tibetana non deve troppo stupire proprio in funzione di quella inefficace cultura del social networking e delle possibilità, non ancora totalmente comprese, che una rete mondiale sia pure “epurata ed emendata”, come da antica tradizione cinese, mette a disposizione di quanti riescono a farne un uso consapevole.

Cospargendo qua e là articoli di Legge e maxi emendamenti come quello contenuto nel discusso e discutibile Decreto Alfano, che vorrebbe assimilare i blogger alle testate giornalistiche nell’obbligo di rettifica di quanto di eventualmente giudicato lesivo o inesatto entro le 48 ore, lo Stato Italiano pare avviarsi verso una strada che renda poco praticabile ed irta l’evoluzione del social networking. Con sanzioni improbabili da rispettare a livello continuativo (i blogger, per essere pronti alle rettifiche, non potrebbero permettersi neppure le ferie) ed impossibili da sostenere economicamente (si indica un range che va da 15 ai 25 milioni di vecchie lire) per i privati cittadini, quello che si ottiene è unicamente un enorme restringimento della libertà di espressione, in quanto la responsabilità di ciò che si asserisce o si riporta è già ben regolata in altre leggi e codici editoriali di indubbia efficacia e di maggior sostenibilità.

 

P.S.: Utilizzando la macchinetta fotografica concessa in usufrutto ad una amica che aveva smarrito la propria avevo provveduto a “documentare” [non troppo debitamente] la foto del divieto telematico, ma il nostro corrispondente locale (“seppur” o forse “proprio perché”  tibetano) – incuriosito dalle sue foto – ha immediatamente provveduto a cancellarla di propria mano perché altamente preoccupato delle possibili ripercussioni da parte dei militari cinesi. Posso però garantire la perfetta aderenza del testo all’originale, trascritto direttamente da un compagno di viaggio. Sono quasi certo che operando con poche semplici accortezze avrei potuto recuperare la foto, ma ho preferito pensare che l’incompiutezza in certi casi sia congenita al valore della testimonianza.

Il problema in casi di questo tipo non riguarda più la domanda lecita su “chi controlla i controllori?”, quanto sul come si possano generare e diramare istanze dagli effetti molto più capillari di autocontrollo preventivo. Per dirla con le parole del giornalista Alberto Giovannini: «La libertà […] è un bene che molti regimi promettono ma che nessun regime è in grado di garantire compiutamente; è quindi un bene che ogni uomo conquista più o meno compiutamente, a seconda del “prezzo” che è disposto a pagare

MICROTV

Novembre 04, 2009 By: admin2 Category: Articoli

magliarossa

di Livio Milanesio

(qualité, liberté, visibilité)

Lo stranoto motto “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani ” attribuito ora a Cavour ora a D’Azeglio, coniato all’alba dell’Unità d’Italia dovette attendere più di un secolo per vedersi compiuto. Chissà se gli azzimati eroi risorgimentali avrebbero mai immaginato che a compiere la storica missione sarebbe stato il corrispettivo dei café chantant, degli imbonitori, dei buffoni, dei cantastorie che animavano fiere e mercati. Sarebbe stata la televisione a fornire agli italiani una lingua comune, un terreno culturale condiviso e lo avrebbe fatto con l’intrattenimento.

Più dell’elmo di Scipio potè il ciuffetto di Pappagone, più del ratto delle Sabine le sgambettate delle Kessler, più della canzone del Piave furono Volare e il festival di Sanremo a renderci quello che siamo.

E ora che gli italiani sono stati fatti è ora di disfarli.

Come tutti i popoli permeati dall’innovazione tecnologica degli ultimi vent’anni, stiamo per esplodere in una costellazione di riferimenti culturali frutto delle numerose occasioni di intrattenimento. Mentre negli anni passati la programmazione TV era l’unica alternativa per una serata senza riunioni famigliari o il tresette al bar, ora l’offerta si è moltiplicata in canali tematici, home video, internet.

Non si potrà più parlare di confini culturali in termini geografici, ma il popolo di Lost costruirà i propri confini accanto a quello di X factor e a quello di Heroes e soprattutto accanto ai migliaia di piccoli popoli intrattenuti dalle più svariate microproduzioni. E ognuno di noi potrà vantare numerose nazionalità.

Del resto era impossibile pensare che le cose potessero andare avanti negli angusti binari che l’industria dello spettacolo aveva creato. Binari determinati dai costi di realizzazione e dalle modalità di fruizione. Ora che i mezzi di produzione costano poco e che i modi della distribuzione si sono moltiplicati all’infinito, si sta creando un artigianato dell’intrattenimento. Un po’ come è successo per lo yogurt e la birra. Un prodotto lavorato in proprio, da professionalità eclettiche per cui la rigida separazione delle competenze non è che un lontano ricordo. Un prodotto che non assomiglia per nulla ai filmini famigliari dell’epoca del superotto. Sono piuttosto microrealizzazioni di buona qualità e di agile organizzazione che a differenza della televisione broadcast possono permettersi di parlare alle nicchie culturali. Come scrive Carlo Freccero del prodotto televisivo: “ogni tratto distintivo, ogni specializzazione (ne) circoscrive la massa del pubblico, lo fraziona, lo frantuma in un pulviscolo di audience minoritarie e specialistiche”. Se da una parte la frammentazione porta a casa un pubblico più piccolo (e dunque meno soldi) dall’altra si è liberi di parlare di qualunque cosa.

È necessario sviluppare una buona dose di intelligenza pratica e arte del risparmio per lavorare in questo campo. Saper trovare il giusto equilibrio tra la qualità e l’agilità. Pochi vezzi stilistici, tante relazioni sociali, collaborazioni volontarie e scambi creativi che assomigliano al baratto più che al management industriale. Per semplificare e produrre.

Di cosa parliamo quando parliamo di Lara (Croft)

Malgrado abbiano cominciato ad emergere, influenzando il cinema la letteratura e l’educazione, i videogiochi rimangono un regno nerd. Provate a parlare di un livello di Resident Evil o di un gol su PES e sarete guardati come misantropi con la crescita bloccata alla prima adolescenza. Lontani dallo sdoganamento snob della televisione i videogiochi rimangono un’attività solitaria e pericolosa che neppure l’avvento della Wii è riuscita a rimuovere (la stessa Wii riporta più avvertenze di una scatola di psicofarmaci). Un argomento out per i grandi mezzi di comunicazione. Ma non per Carlo (Carlo Bassetti) e Oliviero (Fabrizio Luisi) due coinquilini perennemente piazzati di fronte alla console e affiancati dal buonsenso femminile di Valeria (Giulia Viana). Il divano (ripreso da una camera fissa) è il set della sketch comedy Pong ideata e scritta da Simone Laudiero e Pier Mauro Tamburini, entrambi giovani autori televisivi reduci da Camera Café (Laudiero è anche autore del romanzo La difficile disintossicazione di Gianluca Arkanoid, pubblicato da Fazi, dove la disintossicazione è quella dalla Playstation). Pong ha un produttore (YAM112003), un budget, una stagione di 12 episodi da 7’e30”. La differenza con una produzione televisiva tradizionale è che è stata pensata per la rete: il canale BonsaiTv, il portale YALP! Ma soprattutto YouTube.

“E’ stata soprattutto una scelta di libertà espressiva per andare a cercare il pubblico interessato, come noi, ai videogiochi.” dice Simone Laudiero “La distribuzione sulla rete ci consente di raggiungere persone che preferiscono stare davanti al computer piuttosto che alla tv.“ Pong (http://tinyurl.com/n9fmuk).

Microzombies

Nell’anno della consacrazione del sessantanovenne George Romero e dei suoi Zombie al festival del cinema di Venezia ecco Arise, una microserie in dieci puntate di meno di tre minuti l’una da scaricare dalla rete, ambientata tra orde di non morti. Cercando una via d’uscita da una città colpita da una misteriosa epidemia “zombizzante”, un giovane e un vecchio si imbattono in strani personaggi tra cui una ragazza cieca. Una sorta di Divina Commedia splatter dai risvolti urbani. Una produzione che potrebbe essere definita con un paradosso: un microcolossal. Molti personaggi, scene di massa, ambientazioni importanti e una storia che si dipana tra colpi di scena e momenti thriller. Il tutto in tre minuti di puntata. E poi l’intorno: il sito ufficiale (www.project-arise.com), la Fan Page su Facebook dimostrano come il modello tradizionale della produzione e promozione video possa essere ridotto in scala. Tutto è compresso e alleggerito, compresa la distribuzione: il link alla puntata vi viene consegnato nella posta elettronica. Niente sale, niente palinsesto. Gli autori, Fabio Deri, Riccardo Fasano, Lorenzo Barra, in collaborazione con Emanuele Milasi hanno cominciato il progetto durante il corso di Narrativa Digitale allo IED di Torino e in seguito lo hanno fatto decollare.  La prima serie verrà “rilasciata” alle ore 20:09 del 20 settembre. Una data che sembra un presagio: 20:09 del 20/09/2009. www.project-arise.com

Di tutto, di più

Pong e Arise sono solo due esempi dell’infinita offerta, a tutti i livelli, di intrattenimento. Non ci sono più argomenti tabù o troppo specialistici. Non ci sono neppure limiti produttivi o budget troppo bassi. C’è solo la necessità di intessere strategie per raccogliere risorse sufficienti a garantire qualità, libertà e visibilità.

Festival della Creatività

Novembre 04, 2009 By: admin2 Category: Articoli

mappamondo

 

 Al Festival della Creatività sono di scena i linguaggi della creatività nei nuovi media.

Nello spazio multidisciplinare My City si tratteggiano in modo multidisciplinare le nuove vie dell’Arte, Multimdialità, Interaction Design…

Nel padiglione Ghiaia, dalle 10 alle 24, My City guiderà i visitatori in un labirinto creativo di percorsi espositivi, a cavallo tra arte e tecnologia. Il progetto di Creative Social Network Switch sulla costante mutazione della città e sulla mancanza di comunicazione che minaccia i suoi abitanti propone una serie di interventi di indagine urbana attraverso i linguaggi delle arti tecnologiche e dei nuovi media: un lavoro multidisciplinare incentrato sulle tendenze artistiche recenti che coniugano comunicazione sociale, tessuto urbano e innovazione. La mostra MORE MEDIA, my social city lancia l’interaction designing come forma d’arte, ricerca e intrattenimento: il progetto presenta installazioni interattive concepite per eventi e spazi pubblici, coinvolgendo alcuni dei più importanti artisti internazionali del campo. La sezione GRAFICICREATIVI.COM è più di un portale: è un social network, un’effervescente community dedicata al graphic design. Il Progetto di arte pubblica per la zona dell’Osmannoro (Firenze) dei gruppi Florence Art Factory – Influx – Selfish getta uno sguardo altro sui territori di confine della periferia industriale. La XI edizione del master in Multimedia Content Design dell’Università di Firenze presenta TANGerINE cities, le città sonorizzare del futuro grazie alla manipolazione di oggetti sonori ispirati.

Ancora, alcuni dei progetti in mostra a Making Ideas Happening, la sezione che espone i lavori del corso di laurea in Interaction Design dell’Università Iuav di Venezia, sono stati sviluppati da H-Farm, l’incubatore di aziende operanti nei nuovi media, per finire sugli schermi di computer, telefoni cellulari, ma anche su alcuni modelli di auto e nelle videoinstallazioni urbane. Tra gli esempi di connubio tra forme tradizionali d’arte e nuove tecnologie in vetrina nella sezione, presentati dagli allievi dello Iuav, OTTO, lo strumento musicale elettronico di Luca De Rosso e ThoundSocial, il network di condivisione e composizione musicale di Francesco Fraioli. Completano il quadro delle mostre nell’area Ghiaia la rassegna di video-art motion.CUBE e i progetti START di MAI lab e MoonLanding

FakePress

Novembre 04, 2009 By: admin2 Category: Articoli

fake

Di Francesco Fumelli

Una casa editrice cross-mediale di particolare interesse

Ho avuto modo di entrare in contatto con FakePress, una casa editrice cross-mediale che ha sede a Roma. L’idea che FakePress persegue è assai interessante e definisce i contorni di una operazione di network lab che virtualmente potrebbe avere sede dovunque. Lo spirito stesso dell’idea vive e si alimenta in rete. Si tratta di un progetto esemplificativo di un nuovo metodo di lavoro, cross mediale e multidisciplinare. La genesi di questo progetto parte da diverse considerazioni: lo stato attuale di crisi dell’editoria; i modelli di libera diffusione e disseminazione dei saperi; la multiautorialità; l’approccio etnografico al design; la disponibilità di tecnologie ubique e le possibilità che queste creano per ottenere nuove forme di esperienza del territorio, delle narrative, della conoscenza.

FakePress produce media ibridi che disarticolano la forma libro. Si tratta di media relazionali oltre che comunicazionali, che interagiscono con il nostro percepire corpi, architetture, ambienti.

Il modello di partenza è quello della realtà aumentata. I corpi, le città e gli oggetti si ricoprono di codici che costituiscono strati interpretativi aggiuntivi per la realtà ordinaria. Quello che si crea è uno spazio simbolico interattivo e ubiquamente presente negli spazi che percorriamo, a costituire degli interstizi che di volta in volta sono narrativi, politici, economici, scientifici, informativi o anche di intrattenimento. Non si tratta della realtà aumentata “semplificata” che è tanto di moda adesso e che spesso si dimostra una semplice operazione di tagging di informazioni attinte dalla rete, sovrapposte a immagini georeferenziate.

La composizione dei contenuti avviene in modalità multi-autore, e le “storie” sono a finale aperto, in divenire.

Le tecnologie usate, oltre quelle strettamente relative alla realtà aumentata – che sono assai varie – sono gli SPIME, i sensori, gli RFID, gli smartphone di nuova generazione.

I primi progetti, pubblicati e già presentati in diverse conferenze sono:

*Ubiquitous Anthropology*: un progetto che nasce da una ricerca di Massimo Canevacci, da una esperienza sul campo in Mato Grosso (Brasile) con la popolazione Bororo. Il rito del funerale Bororo è diventata l’occasione per comporre una narrativa in cui il punto di vista non fosse, come avviene classicamente, solo quello dell’antropologo. I mezzi di comunicazione sono stati affidati a ricercatori e a individui della popolazione locale, che hanno potuto descrivere la loro visione del territorio, del tempo e delle relazioni. Il tutto è stato preparato in una pubblicazione location-based che sarà affiancata al libro in forma classica: percorrendo il territorio (o consultandolo su una mappa) si possono leggere/vedere/ascoltare i contributi di ricercatori e degli individui locali, la loro cultura, le loro interazioni, la loro percezione del territorio.

Le tecnologie di georeferenziazione sono state anche usate per rappresentare nei palazzi governativi Brasiliani le rivendicazioni politiche dei Bororo.

*iSee*: è una prima applicazione di quello che chiamiamo “shopping based narratives“. Inquadrando con un iPhone il logo di un prodotto (ad esempio andando al supermercato) si ottengono in tempo reale le informazioni di social responsibility e delle politiche ecologiche del suo produttore. Inoltre è possibile creare dialoghi sociali direttamente dal/nel logo: usando iSee si possono aggiungere commenti, annotazioni, messaggi vocali e video sui prodotti, che saranno poi consultabili anche dagli altri utenti. iSee è anche la porta d’accesso ad una nuova forma di marketplace peer to peer, o “supermercato in squat“: immaginate la possibilità, inquadrato un prodotto, di poter vedere in tempo reale altri oggetti/servizi analoghi, locali e certificati in quanto a sostenibilità, politiche ambientali, tipologia delle materie prime utilizzate eccetera. Si tratta, quindi, di un vero e proprio marketplace digitale “in squat” dentro altri esercizi commerciali, capace di promuovere le pratiche della sostenibilità, della promozione dei produttori locali, delle reti economiche virtuose, dei gruppi d’acquisto ed altro.

iSee sarà presentato in anteprima al festival ToShare a Torino, a novembre.

                                                                                                                            

*NeRVi*: NeRVi, come NeoRealismoVIrtuale. E’ un atlante delle produzioni di opere d’arte e di progetti di ricerca in tema di realtà aumentata e di quelle tecnologie o pratiche che aggiungano e rendano fruibili strati interpretativi aggiuntivi alla realtà ordinaria. Si fruisce come una applicazione location based, tipo quelle turistiche. E – di fatto – si configura come una “peculiare” guida turistica. Percorrendo i luoghi del mondo si potrà avere esperienza ed informazioni su progetti ed eventi: dalle performance delle senseable cities di Boston, al cimitero di Oakland con la possibilità di avere informazioni e contenuti riguardo i deceduti presenti, fino agli eventi di Nanchino, dove hacker hanno realizzato un software per sovrapporre agli edifici immagini tridimensionali per evidenziare il flusso di dati p2p.

 

I contenuti offerti da FakePress sono disponibili con licenze aperte di vari tipi, a seconda delle pubblicazioni e degli accordi specifici con chi vi partecipa. La redditività del progetto non viene infatti dal “prezzo di copertina” o dalle royalties sui contenuti, ma viene collezionata in maniera mista attraverso la distribuzione di piattaforme (ad esempio quelle relative alla vendita di applicazioni su Apple Store), dalla partecipazione alla produzione ad opera di aziende ed istituzioni, dalla creazione di strati di servizio, dalla creazione di modelli economici funzionanti con ripartizione ecosistemica dei proventi (come nel caso di iSee per quello che riguarda la creazione di marketplace p2p).

Insomma torna ancora una volta anche la teoria della “coda lunga” espressione coniata da Chris Anderson per definire questi modelli economici e commerciali. Un modello a “coda lunga” può generare un miglioramento del livello culturale della società.

Contatti e riferimenti possono essere individuati sul sito:

http://www.fakepress.net/