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Osservatorio di Cultura Digitale
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Archive for Luglio, 2009

Organico, ultra piatto e molto flessibile

Luglio 28, 2009 By: admin2 Category: Senza categoria

Albert Einstein – Tutto è relativo?

Luglio 27, 2009 By: admin2 Category: Senza categoria

Di Antonio Rollo

Con Albert Einstein inizia l’ultimo secolo del secondo millennio, il 1900

Con Albert Einstein si spalancano le porte ai cento anni più veloci, accelerati, cruenti e camaleontici della storia dell’umanità.

Con Albert Einstein si accende nelle menti dei popoli occidentali un nuovo fuoco della conoscenza.

Tutto questo è dovuto al lavoro di un uomo geniale, sopra le righe per comportamenti, visionario per natura e con una profonda speranza di amore e di pace. Ma anche una persona sensibile alle gioie degli innamoramenti ma incapace di amare profondamente perchè troppo immerso in qualcosa più grande di lui.

Le frontiere della storia stavano per allargarsi. Mentre il giovane Albert conduceva una vita normale per il suo tempo, nell’aria già aleggiavano sentimenti di paura e morte, che avrebbero trovato conferma in pochi anni con lo scoppio del primo conflitto globale. Milioni di persone avrebbero combattuto e perso la vita come ipnotizzati. Il valore del corpo umano ridotto a mero dato statistico. Ma nel 1895, quando a sedici anni scrive il suo primo saggio scientifico “Sull’investigazione dello stato dell’etere in un campo magnetico”, la Grande Guerra era solo in incubazione e prima che scoppiasse sarebbero dovuti passare ancora vent’anni. Venti anni nei quali il giovane Albert realizza un’opera che ha cambiato per sempre il nostro modo di guardare il mondo naturale. Da quel primo saggio separano solo dieci anni dalla pubblicazione della teoria della relatività ristretta avvenuta nel 1905, quello che è considerato l’anno mirabilis di Einstein, e da questa solo altri undici anni e avrebbe preso forma nel 1916 quelli che vengono pubblicati come “I fondamenti della teoria generale della relatività”. Parole queste che oggi fanno parte del nostro bagaglio di concetti comuni, ma delle quali la consapevolezza dei molti è fondata su un idea semplice da condividere ‘Tutto è Relativo’ espressa come modello metafisico del nostro modo di vivere. Una rivoluzione paragonabile a Copernico che ci insegnò come non sia il sole a girare intorno a noi, ma siamo noi con il nostro piccolo pianeta a girare intorno al sole. Eppure come notava Russel tutti sanno che Einstein ha fatto qualcosa di sorprendente, ma pochi sanno che cosa abbia fatto esattamente”.

Nella città di Ulm in Germania esiste il motto ‘Gli abitanti di Ulm sono matematici’ e nel 1879 vi nasce Albert Einstein. Non è certo un caso che la bellezza della relatività di Einstein risieda proprio nella forma dei numeri che permettono di creare modelli che descrivono in armonica simbiosi il mondo naturale.

Per comprendere il lavoro di Einstein dobbiamo spostare il nostro modo di pensare le leggi fisiche. Se prima del 1905 la fisica era pesata sui corpi con le leggi di Newton, dopo Einstein bisogna non più pensare a corpi ma ad eventi. Il corpo diventa solo una componente di un evento, ed un evento come la luce avrà sia un comportamento da corpo – i così detti fotoni – sia un comportamento ondulatorio. Il dualismo della luce, paradossale in senso matematico, porta la fisica di fronte al bivio tra materiale e immateriale. E nel 1905 nell’Ufficio Brevetti di Berna doveva esserci poca luce e nonostante questo un impiegato di terza classe di nome Albert Einstein formulò l’ipotesi rivoluzionaria dei quanti di luce e delineò quella elettrodinamica dei corpi in movimento che avrebbe modificato i nostri usuali concetti di spazio e tempo. E la famosa formula ‘E uguale a m per c al quadrato’ ha in sé come costante esattamente una proprietà invariabile della luce. Si inizia così a capire la rivoluzione sociale in corso attribuita a quella formula. Facciamo un passo indietro a Copernico. Prima di lui l’Uomo era al centro dell’Universo. Dopo di lui abbiamo capito che facciamo parte di un sistema naturale che sposta inevitabilmente la centralità dell’uomo. In altre parole ci siamo messi a servizio della natura, abbiamo cercato di comprenderla attraverso la nostra osservazione e siamo diventati con Newton dei mirabili maghi che possono addirittura prevedere il futuro. Conosciamo bene l’aneddoto della mela di Newton e sappiamo anche che la sua teoria prende vita dalla gravità dei corpi fondata su un sistema di riferimento in cui spazio e tempo sembrano poter essere considerate due identità distinte. Il ridimensionamento operato da Copernico indusse Newton a concepire delle leggi della fisica che tentavano di creare un modello per l’Universo credendo che si comportasse secondo le stesse leggi che agiscono all’ombra di un melo. La monumentale opera di Newton non fu soltanto un edificio della fisica che cominciò ad essere abitato sempre da più persone ma si insinuò negli atteggiamenti morali e politici delle epoche a seguire. Dice Russell Nella teoria newtoniana del sistema solare, il sole appare come un monarca ai cui ordini i pianeti devono obbedire’. Conosciamo bene le conseguenze estremizzate di questo modello della natura. Con il nazismo sembra che la nostra società arrivi ad un punto di non ritorno. Un passaggio forse obbligato per generare nuova vita. D’altro canto Luigi XIV amava farsi chiamare Re Sole, e si mostrava bardato di radiose parrucche e stuoli di obbedienti servitori. Il piccolo Hitler non indossava più radiose parrucche ma ipnotizzò le menti servili attraverso una nuova luce che iniziava a insinuarsi tra la gente. Una luce in movimento come il cinema; poi la televisione aiutò sensibilmente nella propaganda politica ad assoggettare la gente alle idee di un monarca. Idee in parte legate ad un concetto di ‘forza’ newtoniana che salva i capisaldi euclidei della geometria in cui i corpi si muovo secondo una linea retta. Dopo Einstein le linee rette non esistono più, esistono invece delle geodetiche che indicano la distanza minima tra due eventi. Attraverso la teoria della relatività stiamo scoprendo che nel mondo di Einstein vi è più individualismo e meno centralismo autocratico come in quello di Newton. Oggi, a cento anni dall’anno mirabilis (1905) l’eredità di Einstein è stata raccolta da una nuova generazione di fisici alla ricerca di una Teoria del Tutto. Una teoria che possa da qualche parte ricongiungere le due strade aperte da Einstein in quell’Ufficio Brevetti di Berna dove materiale e immateriale sembrano magicamente convivere nel fenomeno naturale che chiamiamo comunemente luce.

Al giovane impiegato di terza classe non interessavano i corpi ma gli eventi. Gli frullavano nella testa idee come la distanza tra due eventi oppure la simultaneità di due eventi e si rendeva conto che l’apparato di leggi della natura che aveva a disposizione fino a quel momento non era sufficiente a risolvere i suoi problemi. Aveva bisogno di nuovi strumenti e decise di costruirseli da solo.

Innanzitutto bisognava sbarazzarsi dell’idea che il sole esercita una forza sui pianeti. Secondo Einstein un pianeta si cura soltanto di quello che si trova nelle immediate vicinanze. La nozione di forza newtoniana era ancora legata alla grossolanità dei nostri sensi. Se fossimo grandi quanto un elettrone e viaggiassimo alla sua velocità concetti euclidei come ‘posto’ non avrebbero più tanto senso. Infatti come dice Russellsulla superficie della terra, per vari motivi più o meno accidentali, le circostanze inculcano in noi concetti che si rivelano inesatti, anche se hanno finito per l’apparirci idee necessarie. La più importante tra queste circostanze è che la maggior parte degli oggetti posti sulla superficie del globo sono, da un punto di vista terrestre, persistenti e sostanzialmente stazionari. Se le cose non stessero così l’idea di partire per un viaggio non sembrerebbe un’idea tanto ben definita”. Forse dovremmo pensare a quell’idea di viaggio delle culture orientali, in cui non è fondamentale l’arrivo ma piuttosto la strada che si percorre e viene subito alla mente il motto di Socrate Conosci te stesso’ che per Einstein può diventare ‘Conosci l’Universo per capire il tuo stesso ruolo nel mondo’. E in una celebre frase Einstein disse: “Perdonami Newton”, proprio perché l’Universo non che apriva di fronte a lui non coincideva esattamente con quanto si pensava fino a quel momento. Cominciamo quindi il nostro viaggio nella Teoria della Relatività cercando di comprendere quegli aspetti che la caratterizzano, seppur coscienti che non possiamo attraversare il mare della matematica su cui la nostra piccola barca di parole e pensieri si dimena.

Abbiamo la sensazione diffusa che Einstein ci abbia lasciato il concetto di “Tutto è relativo”. Non c’è niente di più sbagliato. Infatti se tutto fosse relativo non ci sarebbe più nulla con cui stare in relazione e quindi nel mondo fisico tutto è relativo ad un osservatore. Per ironia della sorte la Teoria della Relatività vuole portare le leggi fisiche ad una completa indipendenza dalle condizioni dell’osservatore. L’osservatore abbiamo visto essere dotato di sensi grossolani per legiferare sull’Universo, eppure i tempi erano ormai maturi per affrontare la questione. Durante uno spettacolo pirotecnico la gente che non sta proprio vicina ai fuochi vede prima l’esplosione di colori nel cielo e poi ode lo scoppio. Chiaramente questo non è dovuto ad un malfunzionamento dei nostri sensi ma al fatto che la velocità della luce e di molto più grande rispetto a quella del suono, ed è una velocità talmente grande che per i fenomeni legati alla superficie terreste può essere considerata istantanea. Tutto quello che vediamo sulla terra accade, praticamente, nel momento stesso in cui lo vediamo. Ma nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo le cose non stanno esattamente come le percepiamo sulla superficie terreste. In un secondo, la luce percorre trecentomila chilometri. Il nostro pianeta ha una circonferenza di appena 40 mila chilometri e viene scaldato da una luce solare che è partita otto minuti prima. Il nostro sole è una stella appartenente ad un sistema di circa centomilioni di stelle, detto “la galassia”. La Via Lattea è la nostra galassia ed ha la forma di una ruota i cui bracci partono a mo’ di spirale da un nucleo centrale. Noi siamo in uno di questi bracci, visibile ad occhio nudo nelle sere più terse, a circa venticinquemila anni-luce dal nucleo. E se noi impieghiamo esattamente un anno a fare un giro completo intorno al sole, il nostro sistema solare impiega circa duecentoventicinque milioni di anni a compiere un giro completo intorno al nucleo della Via Lattea. Eppure la nostra galassia non è sola nell’Universo, ne esistono molti milioni nelle zone che i nostri telescopi riescono ad esplorare.

In tutto questo, continuare a credere che la gravità che fa cadere una mela possa essere eretta fondamento di legge naturale ad Einstein non convinceva affatto e, sorretto da modelli matematici, cominciò a costruire il suo Universo dove le dimensioni di un corpo sono influenzate dal suo moto e non invariabili come si credeva fino a quel momento; e ancora più sorprendente che anche lo scorrere del tempo dipende dal moto, cosa del tutto inimmaginabile fino a quel 1905. Einstein si rifiutava di accettare lo spazio e il tempo come due concetti oggettivi legati alla nostra percezione terrestre e voleva indagare quelle regioni infinitesimali della Natura in cui si andava scoprendo che non poteva più reggere la fisica di Newton ma emergeva come costante oggettiva soltanto la velocità della luce. Immaginiamo di essere su una freeway di Los Angeles, e immaginiamo che possiamo anche correre quanto vogliamo con la nostra automobile. Immaginiamo di accendere tutti quanti a mezzogiorno esatto un faro posto sul tetto della nostra automobile. Non appena la lancetta del nostro orologio avrà percorso un secondo, la luce si troverà indipendentemente dalla nostra posizione relativa di automobilisti scriteriati a trecentomila chilometri da ognuno di noi. Risulta evidente come la velocità della luce possa essere considerata una costante della costruzione del nostro nuovo Universo. Ma facciamo un’altra semplice riflessione che ci porta a comprendere come lo scorrere del tempo sia condizionato dal moto di un corpo. Mi viene in mente una fiaba che mi raccontavano da ragazzo e che sintetizzando diceva così: un re era sempre infuriato poiché i suoi servi lavoravano poche ore al giorno. Chiaramente non si lasciava perdere le occasioni per sfogare sui suoi sudditi con meschina crudeltà la sua indolenza. Un giorno però un giovane contadino che pur sapeva di lavorare dall’alba fino al tramonto, stanco delle ingiustizie costruì una macchina che allunga il tempo e la propose al suo re. Il re fu molto contento che qualcuno avesse inventato un tale marchingegno che permetteva di avere più ore di lavoro. Il giovane contadino aveva costruito una grossa e pesante ruota in pietra a mo’ di carrucola e l’aveva messa su una collina da cui si potevano vedere buona parte dei possedimenti. La macchina per funzionare però doveva essere girata dal re. Come possiamo ben immaginare la percezione del tempo del re che gira la ruota, cambiò radicalmente rispetto a quella che aveva con i ritmi di corte. Ovviamente in questa fiaba non viene presa in considerazione la velocità della luce, ma ci lascia intuire come le fondamenta della fisica fino al 1905 cominciassero a vacillare: fino all’avvento della teoria della relatività ristretta, nessuno aveva immaginato che ci fossero dei dubbi nell’affermare che due avvenimenti hanno luogo nello stesso istante in due posti diversi. Nel prossimo contributo cominceremo quindi ad addentrarci in alcuni dettagli della teoria della relatività ristretta.

CONDOR 2.0

Luglio 27, 2009 By: admin2 Category: Senza categoria

condo

Di Antonio Viscido

Tutti sanno come si scrive qual è. Tutti tranne io, che nella mia ignoranza scrivo, anzi scrivevo, usando l’apostrofo, qual’ è, pensando che la e finale di quale dovesse essere tolta. Non sapevo dell’esistenza della parola qual, la cui presenza nel nostro vocabolario rende inutile l’uso dell’apostrofo. È una regola grammaticale presente da secoli nei nostri manuali, io non la conoscevo, e come me ancora non la conoscono in tanti in Italia, provate a fare una ricerca su Internet! Come ho scoperto la mia ignoranza? Mi ha corretto Luca Sofri nel momento in cui ha risposto alle domande che gli ho posto via e-mail per questa intervista (bontà della Redazione, hanno corretto l’errore nel testo, io l’avrei lasciato!).È una delle tante cose che ho imparato da Luca Sofri e da Matteo Bordone, seguendo quotidianamente il loro programma radiofonico CONDOR 2.0 (su Rai Radio 2 dal lunedì al venerdì alle 16,00). L’indicazione 2.0 (per indicare una seconda release, una seconda versione) nasce dal fatto che la trasmissione, prima condotta dal solo Luca Sofri, ha subito un aggiornamento con l’arrivo di Matteo Bordone, ex conduttore di DISPENSER, altra trasmissione radiofonica della Rai, adesso condotta da Federico Bernocchi.

Seguendo CONDOR 2.0, si scoprono libri, musicisti, fatti e persone che difficilmente vengono presentati in altre trasmissioni, il tutto condito con una sana ironia ed una verve comica spontanea, che nasce proprio dal contrasto caratteriale dei due conduttori: Luca molto preciso, corretto e serioso, rispetto a Matteo più sarcastico, pungente e cattivo. Mentre scrivo mi rendo conto di non rendere onore alla realtà di ciò che avviene durante l’ora della trasmissione. Sono contento del fatto che, anche se abbastanza marginalmente, quello che ho cercato di spiegare viene fuori dal tipo di risposte che hanno dato alle domande. L’unica maniera per capire è ascoltare la trasmissione

D.: Eravate due single radiofonici di successo, ora siete una nuova coppia radiofonica di successo, qual è stato, se c’è stato, il compromesso per la convivenza?

LUCA: Lasciar fare a Matteo delle cose che mi sembrano cretine senza dirgli nulla. O quasi nulla. Cercare di non correggerlo ogni volta che pensavo di saperla più lunga. MATTEO: Lasciar fare a Luca delle cose che mi sembrano politiche stando a sentirle e dicendo una cretinata ogni tanto. Cercare di non correggerlo quando dice “disaign” e non “disain”. Robetta, insomma. In sostanza viene tutto bene senza pensarci.

D.: Come nasce la vostra carriera radiofonica? Ognuno la sua, quella di coppia la sappiamo.

LUCA: Smisi di fare Ottoemmezzo per tornare a Milano dove mi era nata una bambina e avevo un capitale di notorietà da investire: a RadioDue mi proposero di inventarci qualcosa assieme, e feci un programma la domenica con Michele Boroni per tre mesi. Poi si liberò lo spazio quotidiano e fui promosso là.

MATTEO: Dopo aver fatto radio con la Pina a Radio2 e Radio Deejay, fui scelto per questo programma di recensioni, con un taglio un po’ anglosassone e stringato, pieno di contenuti. Si chiamava Dispenser e l’ho condotto per 7 anni. Poi mi sono accorto che era finito l’entusiasmo e che 7 era un bel numero per cambiare.

D.: Com’è cambiato il mondo della radio con la diffusione di Internet e la maggior interattività con il pubblico?

LUCA: Non ancora tanto: c’è una nicchia in crescita che sente la radio online. Ma la radio è sempre quella: l’unica cosa cambiata è la frequenza del feedback, grazie alle mail.

MATTEO: Avere un blog del programma (nel nostro caso condor.blog.rai.it): le cose che dici restano a disposizione di tutti. Anche a quelli che si accorgono che hai detto e scritto delle cretinate. Ma dalla tua hai wikipedia, quindi, insomma: pari.

D.: Possiamo cantare “Internet Saved the Radio Star”?

LUCA: No. La radio va forte anche senza Internet, da un po’ di tempo in qua. Anzi, l’offerta di Internet potrebbe creare problemi alle radio tradizionali.

MATTEO: Non direi. Secondo me l’uomo che ha salvato la radio dell’oblio è Guglielmo Marconi: solo non inventandola si sarebbe riusciti ad affossarla.

D.: YouTube, MySpace, i Blogger, Wikipedia, Facebook Quali di questi fenomeni si affermerà maggiormente e quale tenderà a sparire?

LUCA: YouTube e Wikipedia sono solidi contenitori che ormai esistono e resteranno. I blog sono un mezzo diffusissimo e stabilito. Gli altri sono più fragili e di minori peculiarità proprie.

MATTEO:I social network come MySpace potrebbero riprodursi all’infinito se davvero per le nostre vite il numero di contatti avesse un valore superiore alla loro profondità. Invece siccome tutti preferiamo 5 persone care a 1000 semisconosciuti, piano piano Facebook e MySpace smetteranno di crescere. Youtube e Wiki sono canali perfetti.

D.: Le web radio sono una realtà affermata, le web TV non sembrano avere lo stesso successo: è solo un problema tecnico?

LUCA: Tecnico e economico e culturale.

MATTEO: Le ore restano 24 e scegliere sempre i contenuti in prima persona è stremante. Essere spettatore tradizionale, cioè una spugna passiva, per me è molto soddisfacente.

D.: iTunes e simili hanno cambiato, o cambieranno, il modo di comporre musica? Noi collezionisti di dischi, di cosa ci innamoreremo?

LUCA: Della musica, e delle ragazze: come prima.

MATTEO: In qualche modo tra un po’ si tornerà alle raccolte. Questa fase di amore per i singoli è molto salutare, come lo fu negli anni Sessanta, ma prelude a qualcos’altro, che difficilmente vedrà protagonista Amedeo Minghi.

D.: Avete mai confrontato i vostri anni del liceo con gli attuali liceali? Se l’avete fatto, come vi appare lo scenario futuro?

LUCA: E chi lo sa? Io non capisco mai niente del futuro oltre le prossime due ore.

MATTEO: Il futuro è quel che è. Non c’è scampo più per me.

D.: Bene, potete andare a vivere dove vi pare! Destinazione?

LUCA: New York.

MATTEO: Idem.

D.: Domani staccano Internet a tempo indeterminato. Quanto potete resistere?

LUCA: Si resiste a tutto. C’è gente che sta anni in galera e altri sotto i bombardamenti. Ci si abitua a ben di peggio.

MATTEO: Se staccano Internet devono darci in cambio delle orge, se no non vale.

V.I.P.:Virtual Identity Process

Luglio 27, 2009 By: admin2 Category: Senza categoria

Di Giada Totaro

Il team D3D, ora Xtend3d Lab, unico gruppo italiano selezionato per il Festival Toshare di Torino (11/16 marzo), ha presentato la nuova versione dell’installazione interattiva V.I.P.: Virtual Identity Process.

L’installazione ha offerto l’occasione per un incontro tra identità umana e identità digitale, in un ambiente interattivo che ha messo a confronto l’entità fisica e quella virtuale dei visitatori.

Basata su un sistema interattivo diviso in due livelli, uno verticale (proiezione frontale) ed uno orizzontale (un tavolo/schermo sensibile), la nuova versione di V.I.P. è alimentata da una connessione Web: attraverso l’interazione dei visitatori, sia fisica con il sistema locale, che attraverso l’interazione virtuale dell’utente in Rete, componenti audio e video si auto-generano in tempo reale.

Gli utenti per entrare a far parte del sistema sono stati invitati a digitare il proprio nome e cognome su una tastiera. Questo primo step, ha posto i visitatori del Festival, nel ruolo di protagonisti assoluti della vita dell’installazione.

I nomi inseriti nel sistema generano una ricerca di siti internet. Dopo qualche istante, sulla proiezione frontale, gli utenti, a volte intimiditi, spesso incuriositi, visualizzano la manipolazione del loro data body, cioè dell’insieme dei dati e delle immagini appartenenti alla loro persona sulla Rete, in un pattern creativo dinamico.

Una volta aver assistito alla loro entrata in V.I.P., il tavolo diventa una piattaforma interattiva collettiva: le diverse ricerche in rete, appartenenti ai nomi degli utenti, generano una mappa virtuale costituita da tutti i numeri IP attivati. I visitatori incontrano la forma dinamica del loro data body e da essa rimangono affascinati. Le mani sul tavolo generano forze repulsive e attrattive, aprono varchi nel flusso della Rete, permettono una condivisione di frammenti d’identità virtuale.

L’audio, quadrifonico, ha avvolto i visitatori in un turbinio di sensazioni sonore generate dalla sua interazione con il sistema. Il tappeto sonoro è creato, in tempo reale, dai pacchetti dati memorizzati nel database di ricerca, mentre la parte ritmico-melodica è generata sempre in relazione alla forza e alla qualità delle azioni umane sul tavolo.

V.I.P. al Toshare ha voluto esprimere il desiderio di un social networking in real life, consapevole dell’identità potenziale dei sistemi tecnologici e della rete, con lo scopo di stimolare la creazione di nuovi rapporti comunicativi, privi di gerarchie d’ordine e determinati dal senso collettivo della partecipazione all’esistenza del mondo contemporaneo.

CREDITS

Xtend3d Lab

Web interaction design: Giorgio Rinolfi, Giulia Trapanotti, Fabrizio Varriale

Web interaction sound design: Emanuele Lomello

Communication Manager: Giada Totaro

Web and graphic design: Fatima Bianchi, Elena Dinovska, Alisa Lebedeva

In collaborazione con:

Software Motion Trackin by Orf Quarenghi

Consulenza Java: Studio Homa

Consulenza VVVV/Math: Gianluca Casati (Art3ch)

Identità in transito

Luglio 27, 2009 By: admin2 Category: Senza categoria

identDi Antonio Campbell

Videozoom Marocco

La mostra curata da Francesca Gallo ha portato presso la Sala 1 del Centro Internazionale d’Arte Contemporanea di Roma, la rassegna di videoartisti del Marocco.

Prosegue così l’impegno verso le espressioni artistiche dei paesi emergenti.

«Storica “porta” fra l’Africa e l’Europa, il Marocco è interessato da un rapido processo di modernizzazione, a cui non è estranea neppure la comunità marocchina in Italia, la più numerosa nel nostro paese, che ha collaborato al progetto», ricordano al riguardo gli organizzatori.

Svoltasi dal 17 Marzo al 2 Aprile, la mostra ha offerto un’occasione unica per assaporare l’arte sempre più contaminata ed ibrida di una nazione che si trova ad affrontare le incongruità e le difficoltà di un paese in pieno sviluppo ma che deve fare i conti con un passato non troppo lontano con problemi scottanti quali la censura e la repressione.

Tra gli artisti più significativi di queste espressioni di transizione e crossmedialità figurano Mounir Fatmi, uno degli artisti africani di maggior successo internazionale, che riflette sugli stereotipi culturali e sulla negazione dell’autorappresentazione; e Brahim Bachiri, che si interroga sull’essere marocchini oggi, Mohamed Ezoubeiri, Mourad El Figuigui, e Hassan Boufous che operano in patria e sono originali osservatori di un mondo in trasformazione. Bouchra Khalili, invece, ha scelto il Mediterraneo – frontiera ideale e materiale fra punti di vista e aspettative spesso contrapposte – come tema cardine della propria ricerca, mentre Fatima Mazmouz, si concentra sull’identità di artista e donna.

Infine, Videozoom Marocco ha presentato alcuni degli animatori del Collectif212, fondato da artisti attivi in Marocco, tra i quali Amina Benbouchta e Saafa Erruas, alla loro prima collaborazione per un video, e Younès Rahmoun, tutti caratterizzati da una ricerca che coniuga forme, materiali e idee della tradizione culturale del Marocco, con i linguaggi dell’arte contemporanea “occidentale” e dei new media.

Performing Media – Le nuove forme del media-attivismo

Luglio 27, 2009 By: admin2 Category: Senza categoria

Di Carlo Infante

Sottoveglianza, per il controllo sociale e creativo dei sistemi della telesorveglianza

Le parole nuove sono cose nuove, azioni nuove. Sottoveglianza è una di queste parole.

Riguarda una pratica creativa di perfoming media tesa ad esprimere un controllo sociale della sorveglianza imposto dalla rete sempre più fitta di telecamere per la sicurezza.

E’ intorno a questa nuova pratica che si è svolta a Torino, il 13 Febbraio, al Gruppo Abele di Don Ciotti, un seminario pubblico promosso da Libera e Acmos. L’iniziativa promuove un patto collaborativo e creativo sulla sicurezza a Torino, basato su un controllo sociale della telesorveglianza dal basso.

Sottoveglianza, appunto.

L’incontro ha anticipato di un giorno un’azione dimostrativa che per la festa di S. Valentino, ha visto alcuni ragazzi baciarsi ed abbracciarsi sotto alcune telecamere di sorveglianza della città.

Queste effusioni amorose, e militanti allo stesso tempo, sono progettate dal Performing Media Lab (www.performingmedia.org/lab/pie) per essere poi rilanciate in un progetto di format cross-mediale che prevede l’utilizzo delle riprese delle webcam stesse. Su questo progetto futuro si prevede di andare ad una negoziazione con le istituzioni (dal Prefetto al Teatro Stabile di Torino) sulla base di un’attività che il Performing Media Lab, con Libera-Associazione contro le Mafie, sta portando avanti per l’educazione alla cittadinanza. Ed è proprio in questo contesto che è stata affidata al Performing Media Lab (in particolare all’associazione teatron.org che con Acmos è promotrice di questo laboratorio per l’uso sociale e creativo dei nuovi media) una sede, presso un’immobile confiscato alla Camorra.

Questo tipo di azioni tendono a svolgersi secondo le dinamiche delle smart mob (le azioni improvvise organizzate on line, secondo la definizione data da Howard Rheingold).

Questo è il media-attivismo che c’interessa di più. Estendere le reti nell’azione territoriale.

E’ opportuno, a questo punto, precisare che i tumulti di Seattle contro il WTO nel 1999, quelli che hanno avviato il movimento no-global, debbono quasi tutto a quel metodo di mobilitazione sostenuta dai media interattivi e mobili.

L’uso delle reti (via email, via sms o via twitter, un sistema di messaggi istantanei connessi ai social networking) può, infatti, rilanciare le forme di auto-organizzazione per le azioni nello spazio pubblico.

E’ su queste dinamiche che è decisivo porre attenzione per progettare le nuove forme della politica e tradurre le opportunità della comunicazione interattiva in pratiche creative di interazione sociale.

Parliamo di azioni poetiche o di azioni politiche?

Sì, lo ammetto c’è qualcosa che tende ad uscire dalla consuetudine della cultura e della politica, per come sono state concepite fino ad oggi. Ed è forse proprio di questo di cui abbiamo bisogno se vogliamo coniugare le più vive istanze d’innovazione con una maggiore consapevolezza sociale. Soprattutto per riuscire ad intercettare quella nuova generazione che sta crescendo in una Società dell’Informazione che non può essere interpretata con i vecchi schemi.

Un concetto come quello di performing media si sta sviluppando proprio in questa direzione, intervenendo anche in ambito universitario, dove sta crescendo quella generazione che spesso si trova spiazzata tra un’attitudine compulsava ad usare i sistemi digitali ed un impianto culturale che non le offre le chiavi per esprimerne la progettualità creativa.

Uno degli aspetti più intriganti dell’avanzamento tecnologico riguarda la capacità creativa degli utenti di generare sia contenuti sia comportamenti. Le condizioni della partecipazione (proprie del web 2.0) riguardano, infatti, non solo i dispositivi interattivi delle piattaforme ma la disponibilità ad interagire, tanto più se l’interazione riguarda la rete con il territorio.

Si tratta di individuare i valori d’uso creativo delle soluzioni digitali che, una volta applicate in contesti extra-standard, rivelano funzionalità non previste. Giocando, ad esempio, su un ribaltamento del punto di vista, secondo la prassi del multi-stakeholder, per cui le prese di posizione di una pluralità di interessi, da angolazioni diverse, esprimono una più ampia prospettiva funzionale.

Ecco perché “sottoveglianza”: per ottimizzare i sistemi di sicurezza attraverso uno guardo dal basso, da sotto le telecamere, sulla base di un principio di convivenza civile e non di coercizione.

Se c’è la sorveglianza delle webcam che innervano i sistemi di sicurezza urbani, è opportuno che ci sia anche una sottoveglianza che proponga un controllo sociale di questi sistemi. Solo sulla base di una consapevolezza e di una massima trasparenza delle politiche per la sicurezza e il controllo dei flussi urbani sarà possibile rendere sicuro e vivibile al miglior grado lo spazio pubblico.

Un’azione ludica, certo, ma che rappresenta una tensione creativa che rientra in una tradizione dell’avanguardia. Un’azione di performing media che fa , infatti, riferimento ad alcune esperienze apripista, come quelle dei Surveillance Camera Players che, già nel 1996 a New York, utilizzarono il sistema delle telecamere di sorveglianza per mettere in onda degli interventi situazionisti ispirati all’Ubu Re di Alfred Jarry.

Sono solo performance? Sì. Ma non dimentichiamo che il teatro è nato non per intrattenere ma per contribuire a creare una mente pubblica. E’ stato determinate al tempo della polis greca nel definire i termini di ciò che potesse essere lo spazio pubblico, al di là della dimensione rituale.

La rete è oggi il nuovo spazio pubblico ed ha bisogno di essere messa in relazione con la mente pubblica e le azioni nel territorio: con quelle azioni pubbliche che proprio grazie alla comunicazione interattiva possono raggiungere forme più compiute di organizzazione. E’ questo uno dei modi possibili per fare politica nella Società dell’Informazione, declinandola sulla base dei nostri bisogni e desideri ed emancipandola dal predominio dei grandi network globali, producendo nel web delle esperienze glocal, dove l’azione locale s’afferma nel contesto globale. E’ in questo senso che si può uscire fuori dalla condizione di attoniti spettatori dei grandi giochi, come quelli di Google o di Microsoft (che con la sua bramosia di Yahoo tenta il grande salto nel social web). E’ invece possibile fare della rete uno spazio pubblico dove estendere le pratiche virtuose delle comunità e allo stesso tempo intraprendere una via di sviluppo post-industriale. Questo è possibile perché le dinamiche del web 2.0, basato sui contenuti (e le dinamiche di relazione sociale) generati dagli utenti, lo può permettere. Ma non è scontato, è una scommessa antropologica che va giocata.

Può apparire un dato sovrastrutturale, ma potrebbe sollecitare uno sguardo più attento valutare come sia invece un aspetto cardine del conflitto politico-economico in atto, anche se in Italia l’industria culturale rimane impantanata nel modello televisivo che si morde la coda. Basterebbe contare i miliardi di dollari che vengono messi sul piatto in quei grandi giochi nel web e nel social networking (pensate a You Tube o a MySpace, l’ultimo grande acquisto di Murdoch, quello di Sky).

Il cuore della questione, se ci proiettiamo strategicamente sullo sviluppo potenziale del rapporto tra reti (si pensi al mobile e al wi fi) e territorio, è in ciò che è definito, appunto, il social networking.

La società civile, o perlomeno le sue componenti più avvertite, giovani e creative, inventano continui modi di fare ed interagire. Si tratta di alzare le antenne e rilevarli. Interpretandoli e sostenendoli con la creazione di ambienti web in cui far coniugare la cultura (secondo una sua ridefinizione basata non solo sulla conservazione dei valori ma sulla loro trasformazione) con gli ambiti della nuova comunicazione. Perché lasciare questa opportunità ad altri?

Le condizioni della partecipazione riguardano non solo i dispositivi interattivi delle piattaforme tecnologiche ma la disponibilità dei cittadini della Società dell’Informazione ad inventare le modalità dell’interazione. Ad inventare nuove forme di cittadinanza. E’ qui che c’è da operare.

In questo quadro può essere considerata emblematica quella particolare azione creativa della Sottoveglianza, capace di esprimere attraverso il media-attivismo non tanto una nuova forma di conflitto, bensì una negoziazione dei termini di convivenza civile in una società che rischia di blindarsi all’interno dei sistemi di sicurezza della telesorveglianza. E’ solo un piccolo atto, ma può essere considerato indicativo di una ricerca che può forse rimettere in gioco le pulsioni ludico-partecipative verso un futuro digitale che rischia di compiersi solo all’interno degli assetti tecnocratici.

5 domande a Bruce Stearling

Luglio 27, 2009 By: admin2 Category: Senza categoria

lemDi Antonio Rollo

Il Piemonte Share Festival nato nel 2005 è arrivato alla sua quarta edizione ritagliandosi un posto d’eccellenza tra i Festival di Culture Digitali europei. Caratteristica fondante del Festival è l’attenzione all’aspetto teorico delle tematiche digitali, infatti negli anni abbiamo assistito a conferenze con ospiti nazionali e internazionali che ritrovatisi a Torino hanno lanciato sfide culturali non solo alla città ospite ma all’intero paese. Non a caso Bruce Sterling, noto scrittore di fantascienza e saggista americano, dopo l’esperienza allo Share Festival dello scorso anno ha deciso di trasferirsi a Torino, dove tra l’altro sta ambientando un suo racconto, per diventarne il curatore ospite. Questo per dare un assaggio dell’atmosfera che si vive nella settimana dello Share Festival, in cui le peculiarità dell’accoglienza italiana si fondono in un mush up culturale con le tematiche critiche dell’evoluzione artistica e sociale dei media.

Il tema di quest’anno è Manufacturing e come scrive lo stesso Stearling nell’introduzione al catalogo «a causa dei recenti sviluppi della tecnologia per la fabbricazione digitale, la manifattura sta diventando un’impresa di arte e cultura digitale. L’esplosivo avvento di stampanti 3D, di strumentazioni per la prototipazione rapida e per la fabbricazione rapida è di profonda importanza per Share, per le sue potenzialità di creazione di oggetti fisici da parte di laboratori, studio o atelier di artisti technodigitali», l’attenzione dello Share per la creazione di contenuti è sempre stata al centro del Festival. I contenuti digitali possono diventare, grazie a nuove tecnologie per la prototipazione, oggetti reali e quindi modificare la percezione della costruzione della realtà. Quest’anno si alterneranno nella discussione, tra gli altri, Donald Norman e Markos Novak. Un ciclo di conferenze che a partire da mercoledì 12 marzo vedrà snoccialare la questione della creazione digitale in un contesto sempre più globale e interconnesso. Non manca infatti una riflessione sull’Internet delle “cose” ovvero quei sistemi di relazione intelligente che possono emergere nel momento in cui i vari oggetti quotidiani, dotati di intelligenza digitale, iniziano a relazionarsi e scambiare informazioni utilizzando la maglia di informazioni del web. Il mush up culturale del Piemonte Share Festival non si ferma solo alle conferenze ma propone anche una mostra legata allo Share Prize, il premio istituito due anni fa e che sta crescendo in qualità e sguardo innovativo. Infine vi do appuntamento per venerdì 14 marzo con gli Autechre presso l’Hiroshima Mon Amour dove sarà anche presente il progetto Reactable.

Intanto formulo cinque domande a Bruce Stearling per entrare nel mood del Piemonte Share Festival. Per ulteriori informazioni rimando al sito toshare.it.

1. Dopo i XX Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006, la città sta puntando a diventare un nodo tecnologico del mercato globale. Quali sono i punti chiave per uno sviluppo etico e sostenibile?

R.: Primo, le persone che utilizzano il linguaggio che tu stai usando in questa domanda – in altre parole – lo sviluppo urbano incoraggia chi riesce a proporsi proprio in questa maniera. Torino ci sta provando. O almeno ha dei politici e degli imprenditori con i quali si può parlare con cognizione di causa.

Secondo, un treno europeo super veloce. È imbarazzante. Nessuno è desideroso di convincere la città a farlo, tutti i comuni circostanti lo odiano, ed è costoso. Ma non si può essere un “nodo” senza un network. L’areoporto è un network? Non credo proprio. Si potrebbero realizzare più strade e autostrade? Mi pare che questo sia meno etico e sostenibile che un treno veloce. Il treno è più etico e sostenibile di qualunque altra alternativa.

È anche vero che la globalizzazione sta portando tanti stranieri a Torino, ma è anche vero che a velocità pazzesca la città sta esportando torinesi in tutto il mondo, e questo lo reputo positivo.

Terzo, la costruzione di qualche prestigiosa architettura “etico sostenibile” che abbia ovviamente un *look italiano*. E se poi avesse un aspetto Piemontese o Torinese, tanto meglio. È importante proseguire in questo 21-esimo secolo senza perdere il carattere identitario regionale. D’altro canto, i veri vincitori sono coloro che possono *affermare* il loro carattere attraverso una sostenibilità etica.

Non ha importanza se si tratta di un grattacielo o meno. Torino non avrà mai più grattaceli di Dubai o Shanghai. La questione è riuscire a costruire architetture trend-setting che finiscono sulle copertine dei giornali e persone che naturalmente vorranno viverci dentro. Questo significa incoraggiare i talenti locali.

Quarto, provare a realizzare qualcosa che attragga imprenditori “verdi”. Una sorta di supermercato, alla “Green Eataly” al Lingotto, pieno di prodotti biologici sarebbe perfetto. Renderlo attraente. Questo sarebbe un punto a vostro vantaggio. Provate a realizzarlo.

Quinto, fare qualcosa rispetto alla crisi climatica. Nel prossimo futuro la maggior parte dei villaggi sulle montagne piemontesi vivranno senza neve, e la mancanza di neve porta inesorabilmente alla morte del Po. Credo sia importante iniziare a prevedere le situazioni e studiare delle contromisure, piuttosto che improvvisarsi quando il disastro è avvenuto, come ad esempio a New Orleans.

Sesto. Be patient. (abbi pazienza)

2. Quest’anno lei è curatore ospite del Piemonte Share Festival. Crede che un festival sulle Culture Digitali possa essere un evento cruciale nell’agenda della città?

R.:Perché no? Chi potrebbe non amare un festival culturale? Specialmente se c’è qualche genuina attività culturale da celebrare. Il  successo del festival è intimamente legato con la creatività digitale locale.

Una community che comunque qui è forte. Posiziono Torino tra le migliori cinque città in Europa insieme a Berlino, Londra, Barcellona, Milano e Linz.

Linz è la capitale mondiale dell’arte elettronica. Con risorse limitate e pazienza hanno realizzato veramente qualcosa di intelligente e intrigante.

3.  Manufacturing è il tema di quest’anno e significa alla lettera “costruire con le mani”. I computer hanno esteso inizialmente le facoltà di pensiero dell’uomo. Oggi abbiamo a che fare con nuove mani e nuova materia. La materia di base sono i numeri, quali potrebbero essere le nuove mani?

R.: *Fabricators!  The new hands are fabricators! (le nuove mani sono i Fabricators)

Aspetta di vedere il manifesto che sto scrivendo e che spiega proprio quanto mi chiedi!

4. Stiamo vivendo l’alba di una nuova era con numeri e genetica. Quali potrebbero essere i valori fondanti nella costruzione di Vita?

R.: Se vuoi lavorare con numeri e genetica, hai bisogno di progettare in un modo che sia aperto ai tuoi successori, piuttosto che tagliarli fuori. In altre parole: non tagliare l’albero solo per godere del nuovo frutto high-tech.

L’albero sta lì da molto più tempo dell’umanità, e il termine “high-tech” risulta fondamentalmente senza significato, e comunque l’eccitazione per la novità tecnologica ha una vita breve. È facile idealizzare una cascata di diamanti, ma questa prima o poi finisce.

Inoltre è importante considerare il fatto che avere dei bambini è “costruire Vita”. Non c’è società sull’intero pianeta che non consideri questo un valore fondante. Senza bambini non c’è futuro. Ci vuole un attimo a capirlo, ma è sempre vero.

5. La Singolarità è vicina. Singolarità è il momento in cui biologia e tecnologia si fondono. Prevede un futuro su base puramente spirituale oppure avremmo ancora bisogno di una bio-stampante per la pizza?

R.: Ho scritto una novella di fantascienza in cui c’è proprio una bio-stampante per la pizza. Il personaggio la usa, fa colazione, e se ne innamora. Non è la fine del mondo e non c’è bisogno di nessuna retorica esagerata di stampo techno spirituale e apocalittico.

Abbiamo comunque avuto già vissuto una sorta di singolarità – la bomba atomica è stato un momento in cui tecnologie e biologia si sono fuse, nel senso che finalmente l’umanità ha raggiunto l’abilità di distruggere l’intero sistema biologico del pianeta con una macchina.

Questo fu veramente eccitante – settan’anni fa. Adesso è diventato noioso – inoltre, col la crisi del clima stiamo danneggiando il pianeta almeno quanto con la bomba atomica, soltanto con tempi più lunghi, attraverso i decenni. Non è che il pericolo atomico è scomparso, è soltanto calata l’attenzione sul problema.

Non è che non abbia un rispetto della visione spirituale riguardo presagi di distruzione – voglio dire, certo, è una giusta reazione emozionale, ma appena il rispetto è messo da parte, c’è bisogno di fare qualcosa. Sono anche uno scrittore, e non voglio mettere addosso alle persone un’ombra di mistificazione. Per quanto mi riguarda è meglio usare la fantasia come uno strumento per un’esplorazione mentale che apre a mondi che altrimenti sarebbero dimenticati.

Abbiamo bisogno sicuramente di capire – e agire.

Manufacturing… e gli atomi si presero la rivincita sui bits

Luglio 27, 2009 By: admin2 Category: Senza categoria

Di Simona Lodi

Come si potrebbe prevedere dove ci condurranno scienza e tecnologia?

Marvin Minsky nell’introduzione al famoso il saggio Engines of Creation di K. Eric Drexler1 risponde: «Nonostante molti scienziati e tecnici abbiano provato a farlo, non c’è forse da stupirsi che i tentativi più riusciti siano quelli degli scrittori di fantascienza come Jules Verne e H. G. Wells, Frederik Pohl, Robert Heinlein, Isaac Asimov, e Arthur C. Clarke».

In questo caso la scena potrebbe essere ispirata ad un episodio di Star Treck: the next generation dove il replicator è quella macchina che crea qualunque oggetto o cibo . Il replicator è fondamentale per lo sviluppo della storia perché consente di modellare la materia a livello molecolare e di ricreare qualunque tipo di cosa a partire da materia grezza di base. Una macchina che potendo creare tutto, creerà prima o poi anche se stessa, un tema classico della fantascienza, per esempio di Matrix. Questo paragone è usato da Neil Gershenfeld2 per introdurre il concetto che sta alla base del personal fabricator . Qualcosa che viene subito dopo il personal computer ma che serve per assemblare atomi partendo dai bit e che riguarda la rivoluzione digitale nella fabbricazione. Infatti lo scenario che abbiamo di fronte è fatto di macchine che fanno macchine e di persone comuni che si costruiscono oggetti con macchine che fanno macchine.

Nicolas Negroponte prevedeva 13 anni fa come i bit avrebbero preso sempre di più il posto degli oggetti costituiti di atomi. Cosa che è avvenuto con la posta, la musica, i film, i libri e le immagini che sono usciti dalla produzione e dalla distribuzione industriale. Con il personal fabricator gli atomi si stanno prendendo una bella rivincita. Produrre oggetti fatti personalmente e a propria misura, cambia il modello di business che sposta la produzione di oggetti realizzati per soddisfare bisogni comuni a quelli fatti per esigenze individuali. Anche qui dall’industria a casa propria. La rivoluzione copernicana dell’oggetto.

Detto così sembra davvero che si possa rimettere il controllo della tecnologia in mano ai suoi utenti. L’analogia della personalizzazione della computazione con quello della personalizzazione della produzione è forte. Farsi da soli gli oggetti che corrispondono a desideri individuali e non alla media dei desideri di massa, creerebbe una sorta di artigianato High Tech. E darebbe la possibilità di riportare l’espressione individuale nella produzione tecnologica, incarnando secoli di invenzioni.

In realtà i sistemi utilizzati per produrre prototipi fisici direttamente da modelli digitali – il sistema CNC (Computer Numeric Control) che utilizza un processo di sottrazione di materiale e il STL (StereoLithography per la prototipazione rapida) – utilizzano macchine di dimensioni industriali.

Diverso è il Digital Desktop Fabricator, cioè le stampanti 3D, che sono macchine che possono creare un range infinito di prodotti, pezzi e parti, stando semplicemente seduti in ufficio o a casa.

Fantascienza? Non lo è. Lo slogan dei produttori dice chiaramente: la nuova stampante produce oggetti 3D on demand. Produce cioè prototipi velocemente facilmente e economicamente prelevando il modello da dati digitali che servono per vedere “dal vivo fisicamente” nuovi prodotti o parti meccaniche.

Sì, on demand – a richiesta – e se prima ci volevano gioni di lavoro oggi ci vogliono poche ore. In realtà i modelli attuali costano qualche decina di migliaia di euro, non sarà molto ma non è neanche alla portata di tutti. Principalmente questi strumenti sono utilizzati da grandi aziende, ma potrebbero essere usati anche direttamente da casa dove i consumatori potrebbero scaricare il file CAD da Internet. Il passaggio successivo è assemblare alle stampanti 3D, oltre ai PC anche cutter laser o ad acqua, trapani, un po’ di chip, ovvero ciò che Gershenfeld e i suoi studenti del MIT chiamano fabrication laboratories (fab lab) o detti anche digital fabricators (abbreviato a fabber).

Sono officine autosufficienti, piccole ma utilissime soprattutto per costruire oggetti di impiego locale in paesi poveri dove sarebbe complesso e costoso il trasporto per via aerea.

Di sicuro siamo nell’era del Desktop Manufacturing , anzi siamo nell’era di Arduino, che è uno strumento per realizzare facilmente oggetti interattivi creato apposta per i designers, artisti e architetti. Co-progettato ad Ivrea all’Istituto Interaction Design da Massimo Banzi, prende il nome di un sovrano medievale originario appunto di Ivrea. Ma anche l’era del Flexonics: una nuova generazione di dispositivi meccatronici che differiscono dalle loro controparti tradizionaliste sia nella fabbricazione che nel design. L’obiettivo è costruire dispositivi meccatronici completamente funzionali senza necessità di montaggio. Ovvero integrare questi dispositivi strutturali, meccanici, elettronici e componentistici durante la fabbricazione utilizzando un processo di stampa a getto d’inchiostro. L’intenzione è di sviluppare una stampante 3D completa di tutto.

Detto così sembra facile: scarico un file da Internet e creo un oggetto o magari lo copio. Come è successo con il copyright su musica, video e testi forse anche queste tecnologie scateneranno lotte furibonde sull’ultimo oggetto di Philip Stark che ci si potrà fabbricare senza pagarne i diritti, oppure trasformarlo e ibridarlo con altri oggetti oltre a trovargli altre funzioni.

Non che la cosa sia così semplice e alla portata di tutti, ma con le debite proporzioni/distanza dalla qualità e complessità oggi sembra possibile farsi le cose personalmente senza ovviamente avere a disposizione progettisti, ingegneri, esperti di usabilità, responsabili di test e tutto l’apparato produttivo con annessi e connessi.

Ma a parte le questioni legate al copyright la più temibile minaccia di una pratica del genere potrebbe essere forse diffondere come dice Andrew Keenil culto del dilettante” che, veicolato da Internet, ucciderà la nostra cultura? L’accusa di Keen è diretta a chi vorrebbe riscrivere per esempio il concetto di libro insieme alla proprietà intellettuale di scrittori e editori, digitalizzando tutti i libri del mondo in un unico grande ipertesto open source gratis per tutti. Ogni libro verrebbe incrociato, linkato, estratto remixato , taggato, annotato e riassemblato. E chi se ne importa se a farlo è Dostoevskij o uno dei sette nani di Biancaneve? Potrebbe diventare una rete di nomi e una comunità di idee oppure, senza un modello di bussines per l’editoria, il trionfo del dilettante, scrittori dilettanti e contenuti dilettanti che produrrà una confusione di spazzatura illeggibile. Un po’ quello che accade per la proliferazione dei blog, che qualcuno dice sparirà come fenomeno di massa nel giro di 5 anni. Più che collaborazione e costruzione sociale dei contenuti (Web 2.0) un sproloquio senza fine3. Vedremo.

In realtà il digital fabricator aiuta soprattutto gli artisti , gli ingegneri, gli architetti e designer a fare delle cose, a esplorare le possibilità per la creazione di nuovi tipi di oggetti, edifici e prodotti proprio per l’integrazione tra le tecnologie digitali per la progettazione e la fabbricazione con uno strumento così versatile.

Si verifica quella convergenza e sfocatura dei tradizionali confini disciplinari che è resa possibile da queste tecnologie, e all’uso programmi generativi, contribuiscono a ridefinire l’arte e le pratiche creative ai confini della scultura, dell’architettura e del design industriale.

Come dice Bruce Sterlingla manifattura sta diventando un’impresa che riguarda anche l’arte e la cultura digitale. Questo esplosivo avvento di stampanti 3D, di strumentazioni per la prototipazione rapida e per la fabbricazione rapida è una istanza che una manifestazione come lo Share Festival non si è lasciata sfuggire. La nuova straordinaria potenzialità del digitale è creare oggetti fisici da parte di laboratori, studi o atelier di artisti technodigitali.

Un attività che rappresenta un movimento, un’avanguardia in un certo senso, piuttosto che un eterogeneo insieme di lavori tenuti insieme dal mezzo che utilizzano. Come dice Gershenfeld l’intersezione tra scansione 3D, modellazione e stampa confonde i confini tra artista e ingegnere, architetto e costruttore, progettista e sviluppatore, facendo convergere non solo ciò che fanno, ma anche il modo in cui pensano.

Non si parla più di categorie, ma di un ecosistema fatto di visionari che hanno un ruolo fondamentale come parte integrante dell’ecosistema dell’innovazione, composto da novità scientifiche e tecnologiche, rischi ed errori, creatività e imprenditorialità, leadership e scommessa collettiva sui progetti, finanziamenti e risorse culturali, apertura alla sperimentazione e una miriade di piccoli gesti quotidiani orientati nella stessa direzione. Il ruolo dei visionari che è tipico degli scrittori di fantascienza e delle avanguardie artistiche oggi assunto anche da ingegneri e architetti e designer, che è l’elemento sintetico di tutto questo consente di produrre oggetti, arte, economia per un’umanità non più divisa tra due culture (umanistica e scientifica). Ci si può richiamare ad una definizione che Mark Tribe (fondatore di rizhome.org) ha fornito per definire la New Media Art4: «un “movimento” che non è definito dalle tecnologie, ma al contrario sfruttando queste tecnologie a scopo di critica o di sperimentazione gli artisti le ridefiniscono come mezzi artistici».

Sul “cutting edge” di questi sviluppi vediamo da chi e come è usato nelle arti. Un ampio panorama di approfondimento su queste tematiche è stato sviluppato nel programma di Share Festival di Torino.

Argomento trasversale dell’edizione 2008 del Festival, che ha influenzato i contenuti di conferenze, tavole rotonde, workshop e performance è quello della nuova materialità dell’arte digitale. Perché se negli anni 90 la net art è nata dal bisogno di spingersi oltre i propri limiti e il fenomeno richiamava l’immateriale, addirittura minacciava la dimensione del reale, oggi la società si rapporta alle tecnologie con naturalezza, lasciando che l’immateriale diventi reale, sperimentando sempre nuove interazioni intelligenti tra uomo e macchina, che nel frattempo si è completamente integrata nella vita quotidiana.

Ed è per questo legame tra digitale e materiale, e per le caratteristiche del territorio piemontese, che la IV edizione del Piemonte Share Festival si intitola Manufacturing ed è curata da Bruce Sterling.

Un omaggio al passato, al presente e al futuro di Torino, città con forte vocazione manifatturiera, città dell’industria e della ricerca tecnologica, città che celebra il suo talento nel mondo del design diventando proprio nel 2008 World Design Capital e che potrà trovare nuove strategie per il futuro negli sviluppi creativi dell’incontro fra manifattura e nuove tecnologie. Tra gli ospiti: Stefano Boeri, Julian Bleecker, Marcos Novak, Massimo Banzi, Donald Norman, Anne Nigten.

Di grande moda (ne ha acquistato un esemplare anche Björg) è reactable5 un dispositivo collaborativo elettronico fatto da un ripiano che è un’interfaccia multi-touch. Usabile simultaneamente da diversi utenti ha un’interattività talmente intuitiva da permettere di averne il completo controllo muovendo e ruotando oggetti fisici posti sopra la superficie del tavolo fin dal primo momento.

Altro esempio sono gli Owl Project (Gran Bretagna) con Sound Lathe workshop. Selezionato tra i finalisti dello Share Prize 2008: è un laboratorio di falegnameria che trasforma i suoni del lavoro del legno, tagliare, segare, montare… in veri e propri piccoli oggetti attraverso un “tornio sonoro”. Questa macchina, alimentata dal lavoro dell’uomo, registra i dati audio, li mescola con la polvere, la segatura, i suoni e i disturbi della falegnameria producendo un oggetto unico, irripetibile, spesso imperfetto che diventa così memoria materiale del processo di costruzione dei nostri mobili.

In collaborazione con Club Transmediale e con Generator.x di Marius Watz, la piattaforma curatoriale per strategie generative nell’arte, la mostra Manufacturing di Share Festival al Castello del Valentino a Torino vuole fare il punto della situazione del “fabbing”. Un percorso storico, geografico e metodologico sulle diverse applicazioni del design contemporaneo: dall’innovazione nella prototipazione rapida dell’azienda torinese Provel all’innovazione nella distribuzione in rete del processo di design dei neozelandesi Ponoko, fino gli oggetti degli artisti della scena di arte digitale generativa come Leander Herzog, Jared Tarbell e i torinesi Todo.

I protagonisti di questa scena stanno a metà tra l’architettura, il design e l’arte. Producono sculture come gli architetti Marc Fornes (theverymany) e Skylar Tibbits, che hanno collaborato all’installazione Aperiodic Vertebrae: un assembramento di forme triangolari che ricorda la struttura dello scheletro smontato di un rettile/dinosauro. Sono forme generative frutto di sperimentazioni geometriche fatte con Rhino 3D, il popolarissimo strumento di prototipazione usato dai designer. Come gli oggetti dell’artista Jared Tarbell che usa il cutter laser per trasformare i suoi lavori 2D in forme fisiche, producendo cubi di varie dimensioni con svolazzanti ritagli circolari.

Anche la device art per esempio è una categoria di lavoro artigianale che attinge insieme all’estetica, al design e alla tecnologia per creare oggetti che superano i confini tra prodotto di consumo, oggetto di ricerca e produzione artistica.

Esempio ne è un gruppo di artisti giapponesi che sono definiti da Machiko Kusahara6 come sperimentatori di una nuova forma di new media arte, presenati al SIGGRAPH lo scorso anno. Come dice il teorico giapponese ciò che si definisce device art è una forma di media art che integra arte e tecnologia, design, intrattenimento e cultura pop. Invece di usare la tecnologia solo come strumento al servizio dell’arte come abitualmente è stato fatto, i device artists propongono un nuovo concept dove la tecnologia è il cuore dell’oggetto d’arte, che ridefinisce l’arte come interattiva e quindi il ruolo dell’artista all’interno della società della conoscenza.

Il temine “device art” forse potrà sembrare oscuro o contraddittorio, ma è una scelta consapevole che si basa su un concept che esplora la logica estensione di un cambiamento nel concetto di arte, iniziato con le avanguardie artistiche come Dada e Surrealismo.

Ne sono un ottimo esempio gli oggettini elettronici costruiti completamente da Ryota Kuwakubo. Ogni oggetto ha un design impeccabile come il PLX, una consolle per videogiochi minimali autocostruita che permette la competizione fra due giocatori; il Vomoder, un registratore di messaggi dall’interfaccia antropomorfa e il Bitman, una specie di tamagotchi in cui un omino in pixel danza stimolato dall’utente con graziose animazioni interattive che lui chiama TinyToys, e che analizzano la percezione che il corpo ha della tecnologia.

Ma anche il TENORI-ON del media-artista Toshio Iwai è un valido esempio di questo tipo di lavori che grazie anche alla collaborazione con Yamaha ha condotto alla realizzazione di uno strumento musicale che è al contempo un oggetto di design ad alto valore tecnologico.

L’interesse nel creare oggetti artisti basati sulla combinazione di hardware specializzato con un design originale è inoltre l’elemento chiave dell’attività di Maywa Denki. Mixando lowtech e hightech, l’artista giapponese ha progettato e costruito uno strumento robotico con un’estetica un po’ strana e molto “giocattolosa”.

Note

1. Engines of Creation, The coming era of Nanotechnology di K. Eric Drexler, Anchor Books, 1996

2. Direttore del Center For Bits and Atoms del MIT. Il suo ultimo libro è Fab, Codice Edizioni, 2005.

3. Andrew Keen, Internet e la cultura del dilettante, pag. 15, Nova 24, Il sole 24 ore, 24.01.08.

4. Mark Tribe, Net Works Arte in Rete, L’ultima avanguardia, Flash Art Italia, n. 260, ott.-nov. 06

5. Lo strumento è stato sviluppato da “Interactive Sonic Systems” di Barcellona.

6. Device Art: A New Form of Media Art from a Japanese Perspective (by Machiko Kusahara): http://www.intelligentagent.com/

archive/Vol6_No2_pacific_rim_kusahara.htm

Bayon

Luglio 27, 2009 By: admin2 Category: Senza categoria

Di Fabrizio Pecori

Il problema della privacy attanaglia sempre più la società contemporanea. È un problema ormai pluriennale, che però non accenna a perdere i propri connotati di urgenza, serietà e pervasività. Non è certo un caso se Goodbye Privacy è stato il profondamente discusso titolo e tema dell’ultimo Ars Electronica. La riflessione si fa sempre più matura e le soluzioni paiono ancora ben lontane dal profilarsi all’orizzonte. Anche in ambito artistico – da molti anni caratterizzato dall’attivismo sociale e dalla sperimentazione soprattutto in ambito elettronico e digitale – essenzialmente la tendenza è quella ad affinare strategie di denuncia e di provocazione, piuttosto che indicare effettive e concrete proposte di soluzione.

Del resto la sindrome dell’essere spiati è probabilmente vecchia almeno quanto l’umanità. Se oggi viviamo l’inquietudine delle videocamere sparse (per i più disparati motivi, e quasi sempre in nome di una presunta “sicurezza”) praticamente ovunque, al pari di quella di essere “tracciati” nei nostri percorsi on line ecc…, non possiamo dimenticare che gli albori della sindrome in senso moderno hanno avuto origine molto tempo prima dell’avvento della telematica, ed hanno trovato la loro più inquietante espressione in 1984 di Orwell.

Visitando i templi di Angkor – in Cambogia – e soprattutto il ben noto Bayon si ha come l’impressione che la consapevolezza dell’inquietudine da sguardo indagatore sia stata percepita, e fin troppo efficacemente evocata, già da Jayavarman VII nel tredicesimo secolo, il cui sguardo di pietra replicato infinitamente dai mille volti affacciati su ognuna delle torri nelle quattro direzioni cardinali scrutano impassibili mettendo a disagio il visitatore.

Il turbamento che se ne ricava è talmente forte che alcuni osservatori e studiosi hanno offerto una diversa chiave interpretativa rispetto all’identità dei volti, che potrebbero essere ricondotti alla rappresentazione di Avalokitesvara, figura illuminata del buddhismo il cui nome può significare Occhi amorevoli o Signore dallo sguardo rivolto in basso.

Maurice Glaize, un sovrintendente di Angkor della metà del ventesimo secolo, scrisse che «sul terrazzo superiore regna il mistero. Dovunque uno si volti, i visi di Lokesvara ti seguono e dominano con la loro presenza multipla, sempre controbilanciati dalla massa travolgente del cuore centrale».

Virtual Drug

Luglio 27, 2009 By: admin2 Category: Senza categoria

Si chiama i-Doser ed è distribuita via web sotto forma di files musicali adatti a qualsiasi tipo di sballo.

Così ne parla Il Messaggero.