Il
MIT e la ghiandola cyber-pineale
Di Fabrizio Pecori
Incontro
con il direttore del Cognitive Machines Group del MIT Media Lab
E’ un dato di fatto: il termine intelligente ha pervaso la
nostra società fin nei più remoti meandri: certamente
abbiamo sentito parlare di “case intelligenti”, “sensori
intelligenti”, “automobili intelligenti”, e di
recente è toccato a forni, frigoriferi, etichette, vestiti…
e scusate se mi fermo qui. Ormai siamo anche tutti assolutamente
convinti che esistano (o possano esistere) diversi tipi di intelligenza,
ed abitualmente distinguiamo tra “intelligenza cognitiva”,
“intelligenza emotiva”, “intelligenza motoria”…
Non ci stupiamo neppure più di fronte all’“intelligenza
collettiva” od a quella “connettiva”… (Di
fronte a tante intelligenze, talvolta, forse, verrebbe voglia di
riassaporare l’Elogio suadente del buon vecchio Erasmo.)
Nutriti con il sovraccarico proteico della I.A. – ma sarebbe
più giusto anglofilizzare in A.I. –, o con l’ottimismo
cibersociologico della “connettività”, attendiamo
con impazienza che venga “falsificata”, ogni obiezione
alla pertinenza del test di Turing. Perché in fondo (Matrix non ce ne voglia) ogni conquista “cognitiva” delle macchine
è un inno alla nostra intelligenza.
Certo, è difficile comprendere, esprimere preferenze, elaborare
un’opinione tra le mille teorie alternative, i numerosi modelli
e gli ancor più variegati esperimenti che gli studiosi negli
ultimi anni stanno portando avanti più o meno contemporaneamente.
Volendo tagliare con una grossolana accetta, che niente ha da condividere
con il più “scientifico” rasoio di Occam, potremmo
dire che vi è chi pensa di poter elaborare “modelli
mentali” astraendo completamente dalla “corporeità”,
dalla “fisicità”; e chi invece rinfrescando le
suggestioni filosofiche di Cartesio asserisce che il rapporto tra
mente e corpo è imprescindibile, che non vi può essere
“coscienza” e “cognizione” se non all’interno
di una “struttura” in grado di interagire con l’ambiente
attraverso la locomozione, la manipolazione, la percezione…
Non è un caso che Hans Moravec, l’autore di Mind Children.
The future of Robot and Human Intelligence (1988), amasse ricordare
ai propri lettori che «i venti anni di storia della robotica
moderna non possono sperare di competere in ricchezze di esempi
e profondità di risultati col miliardo di anni di storia
della vita sulla Terra. Circa un miliardo di anni fa i vertebrati
si separano dagli invertebrati. A quella data si ritiene poter far
risalire la necessità di comportamenti “intelligenti”.
Il primo pesce apparve sulla scena 550 milioni di anni di anni fa
e gli insetti dopo circa 100 milioni di anni. Il primo primate risale
a circa 120 milioni di anni fa. L’uomo, più o meno
nella sua forma attuale, si presentò 2,5 milioni di anni
fa, inventò l’agricoltura 12.000 anni fa, cominciò
a scrivere circa 5.000 anni fa e circa da tre millenni ha cominciato
a lasciare tracce delle sue esperienze e delle sue forme di ragionamento».
Appartiene a quest’ultimo filone, alla continua ricerca della
ghiandola cyber-pineale, Deb Roy - il direttore del Cognitive Machines
Group del MIT Media Lab - che ho avuto modo di incontrare nel corso
dell’ultima edizione del Future Film Festival.
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Il suo robot Ripley, messo a punto per
studiare i meccanismi dell’apprendimento linguistico, è
dotato di un sistema di visione stereoscopica ed è in grado
di toccare, afferrare e spostare oggetti. Ripley può inoltre
essere spostato, movimentato, condotto a fare determinate azioni
e, proprio da questi movimenti, può apprendere alcune funzioni
ed interazioni basilari.
Per rispondere alle richieste che gli vengono fatte, Ripley ha
la necessità di creare sempre più sofisticati “modelli
mentali” che lo possano aiutare nella sua interazione con
l’operatore umano.
«Il nostro lavoro – asserisce Deb – comporta
un interessante viaggio nella riscoperta dei metodi di apprendimento
di un essere umano. Cose che vengono apprese naturalmente, che
molte volte non sappiamo neanche come e perché e che, quando
ci ritroviamo adulti, siamo soliti dare per scontate, proprio
in quanto apprese nel corso dell’infanzia. Nella nostra
ricerca ci troviamo spesso ad interrogarci sui vari metodi alternativi
con i quali si può giungere ad un determinato apprendimento,
proprio per evitare di costruire un modello troppo “fragile”.
Solo per fare un esempio: è il complesso sistema della
“visione stereoscopica” che consente all’essere
umano di capire le distanze, e che include il concetto di grandezza
– “se questo bicchiere è più grande
probabilmente vuol dire che è più vicino…”
-, così come è il fatto che abbiamo una visione
convergente che può aiutarci nel ricostruire distanze e
prospettive…».

Nel MyMEDIA CD .02 è disponibile la
videointervista con Deb Roy, corredata dalla testimonianza di
momenti di interazione con Ripley.
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